Di Carlo Cellamare e Francesco Montillo

Donzelli Editore

Una bambina cammina in equilibrio su un muretto, sovrastata da uno dei ‘palazzoni‘* di Tor Bella Monaca. L’immagine di copertina di Fabio Moscatelli – fotografo attento alla vita del quartiere, autore del progetto Qui Vive Jeeg – sintetizza alla perfezione l’operazione compiuta da Carlo Cellamare e Francesco Montillo nel volume Periferia. Abitare Tor Bella Monaca, appena pubblicato da Donzelli: la ricerca di un punto di vista nuovo su un quartiere marchiato dallo stigma ma ricco di chiaro-scuri. «Uno sguardo da dentro e dal basso” (proprio come suggerisce l’immagine) capace di illuminare allo stesso tempo vitalità e problemi, umanità e disagio, progetti e realtà, normalità e stato d’eccezione di una delle periferie più neglette d’Italia.

Una scommessa vinta grazie a un progetto di ricerca-azione avviato cinque anni fa all’interno del Dipartimento di ingegneria civile e ambientale de La Sapienza (DICEA), a un’equipe di lavoro interdisciplinare composta da urbanisti, ingeneri, architetti, sociologi e antropologi, alla raccolta di un ventaglio assortito di contributi che esplorano e «ripensano» sotto diversi angolature le molteplici dimensioni del quartiere, innervata dalle voci dei testimoni privilegiati, da altre narrazioni e linguaggi. Oltre alle immagini, ecco allora undici splendidi racconti brevi di Montillo, che potrebbero fare volume a sé. Le storie tese come corde di violino di Lucia, Michele, Marcello, Daniela, Valentina, Sandra e di tanti altri abitanti, posizionate proprio all’inizio del libro a ribadire la scelta di fondo della ricerca: «Il nodo fondamentale è la necessità di assumere un punto di vista a partire dalle persone – scrive Cellamare – È il punto di vista dell’abitare, che si pone come obiettivo la promozione umana e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone nei luoghi che abitano».

Il libro mostra con abbondanza di esempi come la strada, stretta e tortuosa, dell’ascolto e del coinvolgimento attivo degli abitanti nelle politiche di riqualificazione delle periferie sia l’unica percorribile per contrastare la drammatica spirale di povertà e auto-svalutazione che colpisce chi, relegato ai margini del sistema sociale, viene sistematicamente escluso dai processi produttivi, decisionali e distributivi fondamentali della città. La concentrazione dei fattori di esclusione – dispersione scolastica, povertà educativa, scarse competenze lavorative, disagio psichico e fisico, tossicodipendenza – innesca circuiti viziosi di disorientamento e mancanza di prospettive. La condizione di emarginazione alimenta processi di auto-esclusione, contribuendo a generare meccanismi di sopravvivenza che spesso portano a uno stato di illegalità diffusa riducendo ulteriormente la già esigua possibilità di fuoriuscita dal ‘recinto’. «L’occupazione di un alloggio per necessità, ad esempio, con tutto ciò che di positivo produce dal punto di vista della solidarietà di vicinato, permette nell’immediato la risoluzione di un problema, ma pone gli occupanti nella condizione di venire esclusi definitivamente dalle graduatorie di assegnazione; da quel momento, se esiste una qualunque possibilità di mantenimento dell’alloggio occupato sarà solo per vie arbitrarie, almeno fino all’eventuale deliberazione della sanatoria…» (Montillo). La proliferazione di rappresentazioni stigmatizzanti, intanto, si ripercuote sull’idea che si ha del proprio ambiente di vita e di sé stessi, e marca a fuoco i più giovani con etichette che si appiccicano addosso, generando insicurezze, senso di inadeguatezza e, spesso, la spinta centripeta di un’orgogliosa rivendicazione identitaria, con una conseguente, ulteriore, chiusura di orizzonti.

L’obiettivo del libro, d’altra parte, racconta Cellamare nell’introduzione, «non è solo quello di raccontare e restituire una complessità del quartiere e una ricchezza dell’abitare, non è soltanto rendere giustizia agli abitanti rispetto a una stigmatizzazione, non è tanto quello di denunciare una situazione difficile quanto di caprine le ragioni profonde che vi sono dietro, affinché diventino il terreno di lavoro per le scelte politiche a venire, per realizzare una diversa idea di città».

Numerose in questo senso sono le lezioni apprese, gli spunti e le indicazioni positive per il futuro, le possibili linee di ricerca di uno sviluppo locale capace di coinvolgere la cittadinanza, le associazioni e le realtà attive sul territorio. Si va dalle politiche per l’autorganizzazione alla gestione comune delle aree verdi, dalle linee guida per la manutenzione partecipata alle potenzialità del riciclo, dalla valorizzazione delle progettualità e delle iniziative sociali esistenti che oggi stentano a fare sistema (la Ciclofficina, la scuola popolare, CuboLibro, il CHEntro sociale, l’associazione Tor Più Bella, il Fienile) alla ridefinizione di una visione pubblica della città, pubblica anche e soprattutto perché partecipata e capace di produrre cittadinanza. Sotto questo aspetto, la ricerca su Tor Bella Monaca, emblema di altre periferie stigmatizzate, ambisce ad essere «un possibile riferimento per tanti altri quartieri e tante altre periferie» (Cellamare).

 * Palazzoni: «Non si capisce bene cosa si voglia intendere con questo termine utilizzato in maniera dispregiativa – chiosa Montillo – rispetto a un modello architettonico, quello della torre, che in altri contesti viene considerato molto spesso virtuoso, se non altro per l’attuale dibattito sul consumo del suolo. I palazzoni di Tor Bella Monaca non evocano l’idea di ciò che sono, non forniscono l’immagine di ciò che essi contengono al loro interno, non spiegano la complessità delle relazioni che si strutturano tra i pianerottoli e gli spazi condominiali… Abitare ai palazzoni significa solamente voler intendere che al loro interno si vive una vita diversa, senza che si possa cogliere chiaramente in che cosa consiste tale diversità; l’unica cosa che evocano è l’illegalità diffusa, in senso generico, senza dare spazio a nessuna interpretazione. Le rappresentazioni negative del quartiere divengono, soprattutto in zone dove sono presenti numerosi fattori di fragilità sociale, generatori di paura e alterano la percezione dello spazio, fisico e sociale, sia per chi lo osserva che per chi lo abita».