Autore – Italo Insolera

Editore – Piccola Biblioteca Einaudi Ns

Tanti buoni motivi ci consigliano di riprendere in mano Roma Moderna a dieci anni dalla scomparsa del grande urbanista Italo Insolera. Una lettura avvincente che ci permette di risalire ai mali di Roma capitale: l’intreccio di politica e affari che ne ha guidato lo sviluppo; il distacco, sempre deliberatamente voluto e aggravato, tra centro e periferia: «si preferisce ignorare l’esistenza della periferia e mantenerla perpetuamente in una situazione senza altri sbocchi che quelli consentiti da paternalistici interventi» (Insolera 2011, p. 115). Un classico dal quale non si finisce mai di imparare.

Sollecitato da un convegno sull’attualità del pensiero di Insolera promosso dal Festival dell’Architettura, mi è capitato ad esempio di mettere a fuoco per la prima volta l’attenzione che Roma Moderna riserva al tema della scuola. Pur rimanendo necessariamente sotto traccia rispetto alle vicende propriamente urbanistiche, l’interesse per gli spazi dell’istruzione, anche in forma di brevi notazioni, è continuo e attraversa le pagine come un fiume carsico. L’accessibilità e la qualità di attrezzature scolastiche e verde pubblico sono gli indicatori principali della qualità dell’abitare, spiega Insolera, perché è proprio grazie a scuole e parchi che un aggregato occasionale di persone si incontra, si mescola, diventa comunità. «Scuole e verde sono gli elementi essenziali dell’attrezzatura di un quartiere, di un nucleo abitato, tra i primi fondamentali servizi grazie a cui un insieme di persone si trasforma in una comunità, non solo per il casuale luogo dell’abitazione, ma per una serie di interessi collettivi e per il contemporaneo sviluppo degli organismi comuni. La mancanza di scuole, la loro ubicazione secondo criteri che prescindono dalla formazione organica dei singoli quartieri, l’assenza di verde pubblico sono perciò non solo quantitativamente delle gravi mancanze, delle insostituibili tare nell’organizzazione residenziale» (Insolera 2011, p. 235).

Se proviamo a rileggere Roma Moderna da quest’angolo visuale, ci accorgiamo che lo sviluppo della capitale si accompagna in ogni sua fase a un ritardo scolastico ‘strutturale’, nel senso proprio del termine: un deficit cronico di spazi idonei per l’apprendimento. Una «tara ereditaria» che affonda nella città ottocentesca e papalina, e che tende a perpetuarsi in modi diversi fino ad oggi. «A Roma c’è tutto da fare: edifici per le pubbliche amministrazioni, scuole per i molteplici rami dello scibile…», aveva tuonato in Parlamento il presidente del consiglio Agostino de Pretis nel lontano 1879, due anni dopo l’entrata in vigore della legge Coppino, che aveva prolungato l’obbligatorietà scolastica e introdotto sanzioni per chi la disattendeva. Chiamata a diventare il cuore politico e culturale del nuovo Regno, l’ex capitale dello stato pontificio, così ricca di istituzioni religiose, era del tutto impreparata a supportare l’idea di scuola pubblica e priva di spazi idonei per l’istruzione obbligatoria dei figli del popolo. Per garantire l’accesso allo studio, le prime giunte laiche si videro così costrette ad affittare a caro prezzo palazzi di proprietà della Chiesa e ad avviare la costruzione dei primi istituti nei quartieri storici o di recente urbanizzazione: a Trastevere la scuola Regina Margherita, a Monti la Vittorino da Feltre, a Castro Pretorio la Enrico Pestalozzi, all’Esquilino quella che oggi è la scuola media Daniele Manin (Cantatore 2020, p. 115). Ma se nella città consolidata lo sviluppo del sistema scolastico procedeva a rilento e senza adeguati finanziamenti, nei nuovi quartieri in rapida espansione la scuola tendeva ad arrivare a scoppio ritardato, molto tempo dopo la costruzione dei palazzi: accade a Piazza Quadrata, nei lotti di Piazza Verbano, a Testaccio e nei decenni successivi a Borgata Prenestina, annota Insolera capitolo dopo capitolo.

Il debito sociale ed educativo pagato da Roma al ritardato sviluppo della città dei servizi e della conoscenza è altissimo, agisce come una ‘malattia’ scrive Insolera nel capitolo dedicato a Testaccio. Avviato nel 1883 con la costruzione dei primi lotti, «il più organico tentativo a Roma di fare non un quartiere popolare, ma un quartiere operaio» era rimasto incompleto per trent’anni, un ‘mezzo quartiere’ senza strade selciate, senza gas, senza lavatoi. La scuola aprì solo nel 1907 e senza palestra. «Questo lunghissimo periodo patologico non può non avere avuto una grande influenza sulle persone che lo hanno vissuto escluse da quella pienezza di vita cittadina facilmente ottenuta da altri, costretti a uno sforzo continuo, a un dispendio quindi di energie e di beni, per completare singolarmente le mancanze collettive». Se un quartiere non è pronto ad offrire sin dai primi tempi tutto ciò che occorre per lo svolgimento pieno della vita, chiosa Insolera, «è scontato in partenza il fallimento del rapporto tra l’abitante e l’abitato: senza la quale unità manca la vera partecipazione ai diritti della nostra civiltà urbana» (Insolera 2011, p. 85).
Il primo vero tentativo di mettere le politiche educative al centro dello sviluppo della città giunse quasi quarant’anni dopo l’assunzione di Roma a Capitale del Regno e grazie a uno straniero, il mazziniano Ernesto Nathan. Guarda caso il primo sindaco non aristocratico della capitale. In pochissimi anni (1907-1913) la sua giunta raddoppiò i fondi per l’istruzione, costruì nuove scuole, aumentò le classi, triplicò le sezioni, moltiplicò le ‘scuole rurali’ nell’Agro, sostenne l’avvio dell’esperienza pedagogica di Maria Montessori. Ma il lavoro della giunta Nathan è una meteora nel cielo politico di Roma Capitale.
Il racconto della ‘patologia’ scolastica si ripete e si aggiorna ad ogni riedizione di Roma Moderna. Il paesaggio dal quale Insolera osserva le contraddizioni della città che avanza nella prima edizione degli anni Sessanta è sovraffollato all’inverosimile di bambini che giocano sulle strade sterrate di grandi quartieri in costruzione, in piazzali squallidi tra gru e palazzine. L’esplosione demografica del Dopoguerra – mezzo milione di abitanti in più e popolazione aumentata di un terzo in appena dieci anni, tra il 1951 e il 1961 – e l’espansione a macchia d’olio della città in tutte le direzioni, senza piani né regole, vanno determinando una vera e propria «crisi scolastica» nei nuovi quartieri tirati su in fretta e furia dalla speculazione. «I problemi del verde e della scuola sono simili e hanno la stessa origine: all’aumento globale della popolazione si aggiunge il progressivo arrivo all’età scolastica dei nati negli anni dopo la guerra. La crisi scolastica si fa sentire prima nelle elementari, poi nelle medie e infine all’università: è un problema di quantità di aule e di loro ubicazione rispetto alle nuove zone di espansione, ai nuovi quartieri» (Insolera 2011, p. 235).

Il paesaggio nel quale Insolera aggiorna Roma Moderna a metà degli anni Settanta è molto simile a quello narrato nella prima edizione. Tra il 1961 e il 1971 la popolazione ha continuato a crescere a ritmi forsennati e ha raggiunto il record di 2.700.000 abitanti. A catturare l’attenzione dello storico è il graduale emergere, dal basso diremmo oggi, di nuovi attori del dibattito pubblico: soprattutto nelle periferie la scena si va affollando di comitati di quartiere e associazioni che fanno della scuola, degli asili pubblici, del verde, i loro cavalli di battaglia, un’occasione di mobilitazione per rivendicare il loro ‘diritto alla città’. «Il primo compito di cui queste associazioni si erano trovate investite era stato ovunque la compilazione di carnet de doléances che confermavano in corpore vivo la tragedia di questa città in cui nulla sembra funzionare: scuole con tripli turni, ospedali sempre insufficienti, turni estivi per la distribuzione dell’acqua, interi quartieri senza fogne, eccetera. In un secondo momento queste associazioni sono passate ad azioni di sostituzione delle carenze pubbliche: occupazione da parte di madri e bambini delle aree che il comune avrebbe dovuto espropriare come parchi pubblici, eccetera» (Insolera 2011, p. 297). L’edizione di Roma Moderna ampliata e aggiornata nel 1971 segnala ad esempio l’esperienza della scuola popolare aperta da Don Roberto Sardelli all’Acquedotto Felice: leggendo «Da capitale a periferia» di Franco Ferrarotti, Insolera si era imbattuto nella ‘lettera al sindaco’ scritta con i figli dei baraccati sul modello di Lettera a una professoressa di Don Milani. L’incontro è fuggevole e dà vita a un curioso refuso: Don Sardelli diventa per sbaglio Don Sandrelli (Insolera 1993, p. 311). Nell’ultima edizione di Roma Moderna, riscritta e ampliata con l’aiuto di Paolo Berdini nel 2011, la svista viene emendata e l’esperienza della Scuola 725 acquista nuova centralità come una delle espressioni di quel tanto auspicato rinnovamento culturale e politico che, alla metà degli anni Settanta, portò alla sconfitta dei primi responsabili del sacco di Roma e alla nuova stagione delle giunte di sinistra.
Nel frattempo la Roma del Duemila ha cambiato pelle, è diventata un’altra città. Il trend demografico si è invertito (- 300.000 abitanti dal 1991): nella capitale come nel resto d’Italia si fanno sempre meno figli e da qualche decennio le famiglie, soprattutto quelle più giovani, hanno preso a spostarsi fuori dal raccordo alla ricerca di affitti a prezzi economici. L’immigrazione resta un fenomeno molto vitale ma ha cambiato segno: non proviene più dal Mezzogiorno ma dai tanti e diversi Sud del mondo. Al centro del capitolo conclusivo di Roma Moderna ci sono loro, i nuovi italiani, i figli degli immigrati nati e cresciuti nella capitale, e con loro nuovamente la scuola depositaria, ieri come oggi, del compito fondamentale di creare una cultura comune e una città più coesa.

Malgrado «doppi e tripli turni e proteste», e la patologia scolastica ben documentata nelle pagine e nelle edizioni precedenti, il grande urbanista riconosce alla scuola «il piccolo miracolo» di aver contribuito ad attenuare negli anni le differenze culturali, amalgamando classi numerosissime nelle quali si parlavano tutti i dialetti» (Insolera 2011, p. 369). Ma anche in questo caso l’analisi lascia trapelare dubbi e domande: «a partire dagli anni Ottanta, e cioè da quando la città inizia un lento declino demografico, le condizioni per un ulteriore e definitivo processo di unificazione culturale sembravano avviate verso un traguardo sicuro, ostacolato forse soltanto dagli alti indici di evasione dall’obbligo scolastico che ancora sussistono nelle periferie più lontane» (Insolera 2011, p. 373). Un’affermazione, questa, oggi purtroppo suffragata da tanti dati e ricerche, e testimoniata da dirigenti e insegnanti in trincea nelle scuole di frontiera, senza il sostegno di politiche attive, interventi prioritari e di discriminazione positiva, come avviene in altri paesi. Riferendosi alla Roma multietnica, con parole e concetti che possiamo tranquillamente fare nostri e estendere al più vasto campo delle diseguaglianze educative, Insolera osserva tra l’altro che «stenta ancora ad affermarsi una cultura realmente nuova che nelle scuole dell’obbligo proponga un’elaborazione in grado di tenere conto della molteplicità delle culture che abitano la città…» (Insolera 2011, p. 378)
Nelle ultime pagine dell’ultima revisione di Roma Moderna, stesa a cinquant’anni dalla prima pubblicazione, un Insolera ormai ottantenne torna a leggere il futuro della città attraverso la lente della scuola, regalandoci ancora una volta una lezione di grande attualità. Se è vero che Roma ha sofferto e soffre tuttora, come abbiamo visto, di un grave ritardo scolastico strutturale, e che la speculazione privata l’ha fatta da padrona anche grazie all’ignoranza diffusa, alla nostra mancanza di conoscenza della città, dei suoi abitanti, delle leggi e dei meccanismi economici che presiedono alla sua crescita, della burocrazia, eccetera («ignoriamo Roma, la vita degli uomini che vi abitano, il rapporto di questi con l’ambiente. Ignorano Roma i romani e ignorano quindi se stessi come gruppo sociale… Bisogna ignorare per subire: e l’ignoranza è stata diligentemente perseguita dalla classe dirigente romana…», Insolera 2011, p. X), appare particolarmente urgente rimettere la scuola al centro delle politiche di sviluppo locale.

Edificata a fatica, spesso con colpevole ritardo nel corso di 150 anni di storia unitaria, la rete territoriale delle scuole romane costituisce la principale infrastruttura educativa e di produzione di conoscenza della città e insieme una formidabile risorsa di spazio pubblico da riscoprire, riqualificare e integrare meglio nel tessuto urbano, soprattutto nei contesti più fragili e deprivati di servizi, dove gli edifici scolastici già sono o possono tornare ad essere punti di riferimento fondamentali per tutta la comunità. Secondo un’indagine promossa dalla Fondazione Giovanni Agnelli nel 2019, poco meno del 60% dei 1743 plessi scolastici stimati a Roma è stato costruito prima del 1975 e necessita di essere adeguato alle moderne normative sulla sicurezza. Quasi un edifico su tre non è stato originariamente concepito ad uso scolastico, ma è stato riadattato allo scopo solo in un secondo tempo. Nelle periferie storiche all’interno del GRA, desertificate dalla denatalità, le scuole si svuotano e liberano spazi che possono essere messi a disposizione di associazioni genitori, comitati di quartiere, polisportive e altro (gli esempi in questo senso non mancano: l’Accademia Popolare dell’antimafia e dei diritti promossa dall’associazione Da Sud all’interno di un istituto tecnico di Cinecittà; l’Associazione genitori Di Donato, eccetera). Allo stesso tempo, le nuove periferie e molti comuni della cintura metropolitana vivono crisi scolastiche stile anni Cinquanta, con liste d’attesa, «tramezzamenti» delle aule, doppi e tripli turni. Dappertutto il patrimonio edilizio è obsoleto, maltenuto, privo di laboratori al passo con i tempi: legato a idee antiquate di istruzione, ha urgente bisogno di un processo di rigenerazione educativa. Bambini, insegnanti, educatori, architetti, devono ripensare insieme le aule e gli spazi della scuola, costruire ambienti di apprendimento al passo con i tempi, luoghi non solo dove ‘stare’ ma da ‘vivere’ in maniera inclusiva, perché «i bambini trascorrono gran parte della loro esistenza a scuola e la scuola è in un certo senso un loro habitat» (Cerini 2021, p. 60).

Per affrontare l’annoso problema dell’edilizia scolastica è stata creata un’apposita struttura di missione presso la Presidenza del Consiglio, sono stati stanziati a più riprese ingenti finanziamenti (9,5 miliardi di euro tra il 2014 e il 2017) e istituiti fondi ad hoc nelle leggi di Bilancio (4 miliardi in quella del 2020). Ma le vie delle procedure sono infinite e tanto impegno non ha dato finora i risultati sperati. A Roma, intanto, l’assessorato alle politiche educative ha promosso un bando da 900 mila euro per aprire 60 scuole oltre l’orario curriculare, garantendo attività artistiche, culturali e per il contrasto alla povertà educativa nei pomeriggi, la sera, nei weekend. Un progetto che ha «l’ambizione di fare delle scuole poli civico-culturali, punti di riferimento per le comunità del nostro territorio – dice la giovane assessora Claudia Pratelli – grazie all’alleanza educativa tra scuole, studenti e studentesse, genitori, associazioni e istituzioni territoriali».
Nella capitale moderna del ritardo scolastico eterno la scuola deve tornare al centro della vita dei quartieri, deve farsi politica urbana quotidiana. Servono fondi, è vero, ma ancor prima serve una rivoluzione culturale che ci porti a condividere il principio che quegli spazi, spesso così poco attraenti, così rumorosi e impregnati dagli effluvi stantii delle mense, sono almeno in parte anche «nostri». Il loro stato di salute ci riguarda tutti quanti da vicino. Perché è proprio grazie alle scuole, ci ricorda Italo Insolera, che si costruisce e si afferma la prima persona plurale: quel «noi» su cui si fondano il senso di appartenenza a una comunità e l’idea stessa di bene comune.