Autore – Christian Raimo

Editore – Ponte alle Grazie

Non c’è dibattito pubblico più in crisi di quello sulla crisi della scuola pubblica. Poche settimane fa la lettera di una madre finlandese, sbalordita dall’inadeguatezza dell’istituto di Siracusa dove aveva iscritto i figli, ha scatenato uno tsunami mediatico con decine di articoli sui ritardi della scuola italiana, i segreti del modello finlandese, l’importanza delle lezioni all’aperto. Nel 2017 la pubblicazione della famosa lettera dei 600 docenti universitari sulle carenze linguistiche degli studenti italiani aveva prodotto un effetto uguale e contrario: per settimane sui principali media non si era parlato d’altro, tra reportage sui ritardi dell’istruzione democratica ed elzeviri inneggianti alla scuola ex-catedra di una volta.

Il problema è che del nostro sistema di istruzione si tende a parlare spesso in maniera «impressionistica» sui grandi organi di informazione, senza citare dati e fonti a supporto, «senza nemmeno avere il dubbio di confrontarsi con una letteratura scientifica sul tema». Anche perché gli articoli sui quotidiani che contano – e i libri di maggior successo, quelli destinati inevitabilmente a esercitare una maggiore influenza sull’opinione pubblica e sugli stessi insegnanti – sono opera per lo più di opinionisti a digiuno di pedagogia, no vaxdell’istruzione che si fanno beffe delle innovazioni didattiche, delle preoccupazioni egualitarie degli insegnanti democratici, e della «fuffa pedagogica», additata come una delle ragioni del declino della scuola.

Da questa analisi impietosa dello stridore mediatico di fondo in tema di istruzione parte Christian Raimo ne «L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia» (Ponte alle Grazie, 364 pp, 18 euro), avvincente interrogazione sulla scuola pubblica, la sua crisi conclamata, il suo stesso orizzonte di senso. «Si può raccontare la scuola così?», si chiede l’autore. «Perché ancora di scuola si parla sempre per alcuni aspetti laterali o per questioni che assomigliano a polemiche di stagione sull’esame di maturità, i testi Invalsi, il concorso a cattedre, mentre è difficile trovare discussioni che affrontino i nodi importanti, ossia come si insegna? Come si impara? A che serve la scuola? Qual è il compito dell’educazione?».

Insegnante di storia e filosofia in una succursale alle estreme pendici del VI municipio di Roma, organizzatore delle più varie iniziative culturali (fino a pochi mesi fa anche nella veste di assessore alla cultura del IV municipio), scrittore di belle speranze, instancabile autore di reportage, recensioni, prefazioni, nonché di una produzione febbrile di interventi social all’impronta, in più di un caso al limite della provocazione spicciola, questo Stakanov della scena politica, educativa e culturale nazionale da oltre 50 mila follower ci sorprende all’«ultima ora» del suo impegno militante (il titolo richiama i momenti meno significativi in cui possono accadere cose importanti, «lo sa chi s’inventa bolle temporali in cui tessere uno scampolo di relazione educativa vera nei pomeriggi, nelle estati, dopo la fine dell’orario scolastico») con un saggio che invita se medesimo e il lettore «a sostare nella domanda della crisi della scuola, senza reti di protezione», evitando la tentazione di fornire risposte affrettate. In questo modo, trasformando il dubbio in strategia narrativa, Raimo esibisce nella forma del suo argomentare l’obiettivo stesso del volume: la riaffermazione del valore fondante della ricerca pedagogica contro l’opinionismo praticato dai media, per «vedere se dobbiamo accontentarci di qualche tipo di nostalgia a basso costo, o possiamo immaginare come si apra un campo per le rivoluzioni».

Tra le tante domande non banali aperte dal volume sul passato («come leggiamo il passato della scuola?»), sul futuro («perché è così difficile immaginare delle utopie scolastiche?») e sul presente della sfida educativa («è giusto diventare docenti di ruolo senza un’adeguata formazione didattica?»), una in particolare orienta la riflessione di Raimo e il suo stesso lavoro di insegnante: la domanda di senso che molti studenti pongono ogni giorno alla scuola d’oggi. «Alcuni miei studenti me lo dichiarano: ‘che hai?’ ‘Odio la scuola, prof’. ‘Cos’è che odi?’, ‘Tutto, venire a scuola’. ‘Ma non ti piace niente? non ti appassiona qualche materia?’, ‘Sì, la ricreazione’». Questa insofferenza non viene per forza da chi va male, da chi non si trova con i professori o con i compagni, ma è la dichiarazione di resa di fronte a un’insufficienza costitutiva».

Un’esternazione di insofferenza che in Italia si traduce tra le altre cose in elevati tassi di abbandono scolastico, «il problema politico italiano dai tempi della legge Coppino dell’Ottocento – scrive Raimo – Ogni volta che entro in classe, penso che al mio lavoro manca un pezzo. Spesso ai ragazzi lo dico: qui manca una settima fila, c’è una settima fila invisibile che oggi non è a scuola, non c’era ieri, non ci sarà domani. È composta dal quasi quindici per cento di studenti che abbandonano la scuola dopo la terza media e che non prenderanno un diploma di scuola superiore. Sono quelli per cui non verranno rimossi gli ostacoli come prescritto nella costituzione all’articolo 3, sono quelli per cui il pieno sviluppo della persona umana si ferma a 14-15 anni. Sono gli ex compagni di classe che, nel momento in cui stiamo facendo lezione, stanno a casa, stanno lavorando probabilmente in nero o sottopagati da qualche parte, stanno in giro vagabondando da qualche parte». Ma in molti altri quartieri e aree svantaggiate del Paese a mancare all’appello sono addirittura le quarte e le terze file di studenti.

I problemi educativi generati dalla carenza materiale e simbolica di investimenti nell’istruzione pubblica «incidono direttamente sul corpo delle persone». Senza un adeguato livello di padronanza in literacy, ricorda Raimo citando le ricerche internazionali, le persone hanno una vita più breve, maggiore possibilità di ammalarsi, meno senso civico e meno fiducia negli altri, lavorano di più per guadagnare di meno. «In una nazione che non riesce a garantire a tutti il conseguimento dell’istruzione di base, né le competenze necessarie al pieno godimento dei propri diritti e al soddisfacimento dei propri bisogni, è evidente che dobbiamo avviare una seria riflessione sulla scuola e sull’università, ma è altrettanto evidente che questa riflessione non può essere guidata da sentimenti nostalgici, da ideologie classiste o da interessi di categoria».

Se parlare della crisi della scuola significa interrogarsi con cognizione di causa, a partire dalla lezione dei maestri e dalle frontiere della ricerca pedagogica, su tanti aspetti diversi che contribuiscono a determinare il «fatto educativo» in classe (formazione, valutazione, orientamento, inclusione, relazione, eccetera), dare qualità al dibattito pubblico sulla crisi dell’istruzione pubblica significa anche smettere di parlare della scuola come se fosse un esperimento in vitro, avulso dal contesto sociale. Significa «tenere conto che le carenze della scuola sono il riflesso di mancate politiche dell’educazione che riguardano tutta la società», da ciò che accade in città e nei singoli contesti territoriali, a quello che passa la Tv. Significa infine interrogarci sul nostro stesso contributo alla costruzione di una società educante: «Quante volte diciamo: a questo dovrebbe pensarci la scuola? E perché non diciamo invece che dovrebbe essere tutto il resto della società anche a prendersi in carico i compiti educativi?»