Il 28 maggio 2025 è stato inaugurato il nuovo Laboratorio di Meccanica del Borgo Ragazzi Don Bosco, il primo atto concreto del programma di collaborazione triennale con la Fondazione Paolo Bulgari per il sostegno dei percorsi di formazione professionale e il rilancio dell’imprenditoria giovanile.
Intervista a Stefano Millepiedi, direttore del CFP di Borgo ragazzi Don Bosco
Una laurea in scienze politiche e un intenso apprendistato come insegnante e operatore volontario all’interno del carcere di Rebibbia, Stefano Millepiedi è immerso da trent’anni nel sistema salesiano della formazione professionale, articolato a Roma su tre poli: il Teresa Gerini, il più grande, copre tutto il versante della Tiburtina fino a Monterotondo e propone percorsi nell’automotive e nel comparto elettrico; il Pio XI sulla Tuscolana, per le qualifiche in estetica e grafica; e infine lo storico centro di Borgo Don Bosco, che dirige da due anni dopo quasi tre decenni trascorsi al Teresa Gerini
Può raccontarci in sintesi le attività del CFP di Borgo ragazzi Don Bosco e il contesto in cui opera?
«Siamo una struttura storica fondata quasi ottanta anni fa in una grande area che ospita al suo interno numerose attività, servizi e spazi per i giovani dei quartieri limitrofi: l’oratorio, la casa famiglia, i campi gioco e le attività dell’extra-scuola, i corsi diversificati per la formazione professionale. Il nostro CFP dipende dal sistema regionale, ospita circa 320 ragazzi distribuiti in quattro corsi – uno di meccanica, uno elettrico e due di ristorazione -della durata di tre anni, con la possibilità di farne un quarto anno in alternanza scuola-lavoro, ed è profondamente inserito in un tessuto territoriale ampio e complesso che da Centocelle e dal Quarticciolo raggiunge Colli Aniene, la Collatina, la Casilina, Giardinetti, Tor Bella Monaca, Torre Angela, Finocchio. Il contesto è difficile, lo sappiamo, ma la sfida per il nostro centro è sempre stata quella di cercare di offrire un servizio di eccellenza a partire da situazioni che eccellenti purtroppo non sono, e da un territorio nel quale anche la parola legalità ha un suo significato».
Un territorio molto poco sviluppato anche dal punto di vista industriale.
«Con l’eccezione della cosiddetta Tiburtina Valley e della zona di Pomezia e Latina, dove negli anni Sessanta gli interventi della Cassa del Mezzogiorno favorirono la delocalizzazione di diverse aziende meccaniche, a Roma il tessuto industriale è notoriamente debole ed è il terziario a farla da padrone. Di conseguenza la domanda di personale per l’industria non è altissima, ma anche l’offerta è minima, e ancora minore è il numero dei ragazzi che riusciamo a formare. Per questo, alle famiglie che si informano sugli sbocchi del corso di meccanica industriale, possiamo dire senza tema di essere smentiti che alla fine del corso i loro figli troveranno certamente lavoro, ammesso che abbiano voglia di lavorare: dati alla mano il tasso di inserimento è vicinissimo al 100%. Nel settore della meccanica industriale non facciamo altro che ricevere richieste di apprendistato che purtroppo non riusciamo a soddisfare: quest’anno ne abbiamo ricevute 37, ma i ragazzi giunti al quarto anno sono solo 18».
Quanti sono i centri di formazione a Roma che preparano alla qualifica tornitori-fresatori?
«Purtroppo siamo rimasti gli unici a formare i ragazzi in questo settore, noi salesiani di Borgo Ragazzi Don Bosco e del Teresa Gerini. Si trovano moduli di tornitura e fresatura presso i tecnici Industriali, ma il percorso che propongono è soprattutto teorico e i ragazzi non lavorano direttamente con le macchine. Quando ho iniziato a collaborare con il CFP, a Roma i centri che formavano i ragazzi alla meccanica industriale erano cinque».


Quali sono i motivi che hanno spinto gli altri centri a desistere?
«Le variabili sono tante: i costi di gestione e di manutenzione elevati (l’anno scorso abbiamo dovuto spendere 4 mila euro per la riparazione di un braccio meccanico rotto accidentalmente da uno studente); la difficoltà di sostituire i formatori e i coordinatori quando vanno in pensione; la scelta per alcuni di buttarsi sulla parte privata… Visto che tante persone adulte vorrebbero imparare questo mestiere, qualcuno ne ha fatto un discorso di business. Infine un grosso ostacolo è rappresentato dai costi proibitivi per l’adeguamento delle tecnologie, indispensabile per dare ai ragazzi la possibilità di apprendere lavorazioni simili a quelle che trovano oggi nelle aziende. Per quanto ci riguarda abbiamo avuto la fortuna di incontrare sulla nostra strada la Fondazione Paolo Bulgari, perché il sistema di finanziamento regionale a ‘quota ragazzo’ copre a mala pena le spese per il personale. Senza il vostro aiuto non saremmo mai stati in grado da soli di fare questo passaggio tecnologico che per noi è davvero ‘epocale’, visto che lavoravamo attrezzature degli anni Settanta. Prima del vostro intervento non dico che stavamo andando verso la chiusura, perché non ci abbiamo mai pensato, però eravamo vivevamo la frustrazione di non riuscire a stare al passo coi tempi. L’intervento della Fondazione ci ha dato una spinta incredibile… e non solo al settore della meccanica».
In che modo l’intervento è andato a beneficio di tutto il centro?
«Per alimentare le nuove attrezzature del laboratorio di meccanica abbiamo dovuto rifare tutto il sistema di alimentazione elettrica del Borgo, a partire dalla cabina. Prima dell’intervento alcuni macchinari erano fermi perché avevano capacità di assorbimento eccessive per le nostre possibilità, altri non potevano funzionare in simultanea. L’ammodernamento del sistema di approvvigionamento elettrico, reso possibile dal contributo della Fondazione, ha determinato un importante incremento di chilowattora per i tre settori della formazione professionale e per tutto il Borgo nel suo complesso, dal centro diurno alla casa famiglia. Si è trattato di un intervento complesso, costoso, con infinite complicazioni burocratiche, che ci ha portati a compiere un vero e proprio salto di qualità».
Ci può aiutare a comprendere meglio il sistema italiano della formazione professionale che per molti versi continua a rimanere un oggetto misterioso?
«Nel corso degli anni la formazione professionale ha subito profonde trasformazioni. Trent’anni fa era rivolta agli studenti ripetenti ultra-quindicenni e la qualifica veniva concessa al termine del secondo anno. Con l’inserimento a pieno titolo dei centri di formazione professionale nel ciclo di istruzione superiore, e la possibilità per gli studenti di assolvere l’obbligo scolastico all’interno dei CFP, è cambiato tutto. Oggi accogliamo principalmente i ragazzi in uscita dalla scuola media ed è stato abilitato il ‘sistema delle passerelle’, ovvero la possibilità del passaggio bilaterale dagli istituti tecnici o dall’IPSIA ai nostri centri, e viceversa. Dopo tre anni di corso – quindici ore settimanali di teoria e altrettante di pratica – i ragazzi ottengono una prima qualifica che consente loro di assolvere all’obbligo formativo e di accedere al mondo del lavoro. Il quarto anno si caratterizza per la sua alta professionalizzazione: gli allievi trascorrono un anno di alternanza scuola/lavoro presso un’azienda, sono contrattualizzati attraverso la formula dell’apprendistato e ottengono un diploma di qualifica professionale. Infine, per chi non vuole bruciare le tappe, c’è la possibilità di ottenere i crediti formativi e di svolgere anche il quinto anno in una scuola pubblica del quartiere, dalla quale si esce con il diploma di secondaria superiore, un diploma che consente, a chi lo desidera, di andare all’università».
La riforma degli IeFP ha comportato un ampliamento dell’offerta delle ore di istruzione finalizzate al raggiungimento delle competenze di base. È così?
«Una volta le ore dedicate alle materie ‘trasversali’ – italiano, storia, matematica, inglese – erano di meno e più legate alla professione: si studiava diritto del lavoro, si imparava a fare il curriculum, difficilmente si faceva letteratura. Oggi il monte ore delle materie trasversali è cresciuto ed è cambiata allo stesso tempo la tipologia dei formatori: se prima molti provenivano dal mondo del lavoro, oggi sono tutti più scolarizzati e laureati. E tuttavia spostando la coperta del monte ore di formazione settimanali sul versante della scolarizzazione, il rischio è quello di fare dei CFP delle semplici ‘scuole di serie B’, ‘più facili’ rispetto agli Istituti scolastici tecnici e professionali e agli IPSIA, a scapito di quello che deve rimanere il nostro punto di forza, ovvero la quantità e la qualità delle attività laboratoriali. Di fatto la formazione professionale nel nostro Paese continua a vivere una crisi di identità: l’equilibrio tra il processo di progressiva scolarizzazione dei CFP e la necessità di mantenere una forte connotazione legata al fare è ancora labile.».



Perché in Italia, malgrado tutte le riforme, la formazione professionale continua a godere di questa cattiva nomea?
«In diversi paesi europei, ad esempio in Spagna, la formazione professionale ha una sua grande dignità anche rispetto alla scuola tradizionale, e non c’è la percezione, così radicata da noi, che debba rappresentare necessariamente una scelta di ripiego. Da noi la svalutazione sistematica dei percorsi legati al fare e alla laboratorialità è un vero e proprio problema culturale che determina la corsa alla licealizzazione e una poca attitudine al ‘fare’. Spesso anche gli insegnanti continuano a veicolare un’idea del settore ancorata agli anni precedenti, quando si chiamava avviamento professionale. Tendono a inviare ai CFP solo i ragazzi che hanno creato problemi nel triennio o certificati con problemi particolari. Su questo stiamo lavorando parecchio, organizziamo Open Days, incontri con le scuole… Al termine delle visite molti insegnanti ci dicono che non pensavano che a Roma esistesse una realtà del genere. Le cose stanno un po’ migliorando, ma c’è ancora molto da fare».
Un’altra criticità del settore è quella di non riuscire a fare sistema. È così?
«Esatto. Dal punto di vista organizzativo una grande criticità del settore è rappresentata dal fatto che – essendo di competenza regionale, su delega del Ministero del Lavoro e non del Ministero dell’Istruzione – i CFP continuano a non fare sistema a livello nazionale. Troppo diverse tra loro sono le normative regionali, così come i contesti sociali, i tessuti industriali, la storia e le tradizioni lavorative locali. Paradossalmente laddove c’è un livello di disoccupazione più alto, ad es nelle regioni del Sud, la formazione professionale continua ad essere poco presente, mentre è molto forte al Nord, dove il tessuto industriale chiede ragazzi formati anche dal punto di vista manuale».
Cosa si può fare, allora, per rendere più attrattiva la formazione professionale?
«Il nostro primo obiettivo è quello di farci conoscere, perché in questi anni ci siamo resi conto che pochissimi hanno informazioni accurate sulla nostra offerta formativa e sulle importanti possibilità occupazionali che apre. Prendiamo il lavoro del meccanico industriale: a chi si informa sulla possibilità di intraprendere questa strada è importante far capire che può raggiungere livelli molto qualificati, ad esempio nel campo della componentistica spaziale o delle apparecchiature mediche di precisione, che ha ricadute occupazionali certe e mediamente ben retribuite. Un’altra strada è quella di rendere sempre più belli e moderni i nostri laboratori, come è successo ora grazie all’intervento della Fondazione».
Le aziende vi danno una mano in questa direzione? Com’è il vostro rapporto con le realtà produttive?
«Con le aziende in questi anni il rapporto è molto cresciuto: negli anni Ottanta molte faticavano ad accettare i nostri ragazzi, li vedevano ancora come un problema, più che come una risorsa. Oggi, al contrario, molte aziende cominciano a capire l’importanza di investire nella formazione; qualcuna accetta di sponsorizzare i laboratori, oppure ci supporta nella formazione. Sanno che i nostri percorsi formano persone prima ancora che tecnici. Ragazzi emancipati da determinate situazioni, strutturati, capaci di relazionarsi con i colleghi, di stare bene in un contesto lavorativo».