In inglese si dice «scaffolding», da «scaffold», impalcatura. Un’espressione colorata che riassume in una sola parola l’impegno (non facile) di chi costruisce appoggi e sostegni per il lavoro degli altri. Il mestiere che tiene occupata da oltre vent’anni Valeria Lucatello, una delle massime esperte di costruzione di ponteggi con e per le scuole che vogliono sperimentarsi in nuove alleanze educative. Ponti tra scuole e territori. Impalcature per rendere più solida la collaborazione tra insegnanti e educatori.

«Che la scuola sia diventata un fondamentale presidio culturale e sociale siamo ormai quasi tutti d’accordo – mi racconta al telefono – Una nutrita maggioranza di dirigenti e di insegnanti ha anche maturato la consapevolezza che il livello di problematicità portato ogni mattina dai ragazzi è spesso fuori dal loro controllo, che non si può lavorare solo sul canale dell’apprendimento mentre tutto il resto frana, e che per riuscire a dare risposte diversificate a bisogni ai quali la scuola da sola non può fornire bisogna necessariamente connettersi con altre realtà e figure professionali. Il grande tema, allora, è capire come riuscire a collaborare con la scuola. In passato è prevalsa la formula della progettazione sulle scuole, spesso a prescindere da una reale valutazione dei loro interessi e bisogni, una cosa dannosa che in diversi casi ha determinato e determina incomprensioni e chiusure».

Romana, cinquantenne, un’esperienza di volontariato post-laurea con l’Arci a Casal del Marmo, Valeria Lucatello ha coordinato per diciotto anni l’area psico-sociale della ‘scuola di seconda opportunità’ promossa alla fine degli anni Novanta nel quadrante orientale della Capitale, e ha collaborato con tutti i principali progetti che hanno cercato di unire il mondo della scuola con quello del Terzo settore per immaginare modelli alternativi di insegnamento per gli alunni pluribocciati e a rischio di dispersione, dal progetto Chance a Napoli a Provaci ancora Sam a Torino, passando per Trento e Modena.

Un percorso professionale che sembra quasi un destino.

«Con una madre insegnante, un padre insegnante, una sorella maestra elementare, a casa non si parlava d’altro, tanto che da piccola ricordo di aver giurato che mai avrei mai fatto quel mestiere che rendeva ai miei la vita molto faticosa. E invece sono uscita dalla porta per rientrare dalla finestra: subito dopo la laurea in psicologia dell’età evolutiva, ho cominciato a lavorare con la scuola, ma con strumenti diversi. Da psicologa ho ricoperto tutti i possibili incarichi, dallo sportello al lavoro di coordinamento. Poi ho scelto un’area nuova, secondo me più creativa e utile… quella di chi cerca di far convivere in modo costruttivo diverse figure con l’obiettivo fondamentale di aiutarle a trovare nuove soluzioni, possibilità, strade, per sostenere i ragazzi più in difficoltà. Per riuscire in questa impresa servono mediatori che conoscano il funzionamento dell’essere umano ma che abbiano anche una buona predisposizione all’ascolto, a comprendere alfabeti diversi, e fare da collante. E a me ha aiutato molto essermi formata come psicoterapeuta familiare».

L’importanza strategica di lavorare insieme agli altri all’interno della scuola è una delle grandi lezioni che ha appreso all’interno della scuola di seconda opportunità.

«Quando lavori nel contrasto alla dispersione scolastica maturi la consapevolezza che è un problema talmente complesso e sfaccettato – determinato da molteplici variabili che hanno a che fare con tantissimi aspetti della vita del ragazzo, della famiglia, del territorio in cui cresce – che deve necessariamente essere affrontato a 360 gradi mettendo insieme più figure professionali, come facevamo nella scuola della seconda opportunità. Grazie ad una preside molto illuminata, gli insegnanti del 4° CTP (oggi CPIA) lavoravano sempre insieme agli educatori con una variabilità di setting articolatissima e una flessibilità mai vista. C’era uno psicologo per i ragazzi, uno per le famiglie, uno per l’orientamento, e il progetto assicurava davvero la presa in carico della vita di questi ragazzini, permettendogli di conseguire la licenza media e di iscriversi al Centro di formazione professionale Gerini sulla Tiburtina, un traguardo che dopo tre bocciature consecutive ai più pareva impossibile. Ma questo percorso richiedeva un notevole dispendio di personale, energie, risorse economiche. Così, quando questa esperienza si è esaurita, abbiamo cominciato a pensare come riutilizzare e mettere a disposizione della scuola ordinaria tutto quel patrimonio di saperi e metodologie in funzione preventiva e non meramente riparativa. Ad esempio l’interprofessionalità, ovvero la compresenza di insegnanti ed educatori durante le lezioni, dove l’insegnante continua a dettare i contenuti della lezione e a fare ciò che sa fare, mentre l’educatore aiuta l’insegnante a rendere la lezione più laboratoriale e su misura dei suoi alunni, per agganciarli maggiormente. Una proposta, però, che può funzionare solo se è costruita fin dall’inizio insieme alla scuola»

Promosso dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo in collaborazione con il Comune e l’ufficio scolastico regionale, Provaci Ancora Sam coinvolge oggi tutti i 32 istituti comprensivi della città e una trentina di associazioni del Terzo settore, facendo lavorare da tempo fianco a fianco insegnanti ed educatori. Il percorso di riflessione organizzato da Maggio a Giugno è stato molto partecipato, e i suoi esiti sono attualmente in corso di approfondimento.

Con il supporto tecnico di Riconnessioni, un’agenzia per la didattica multimediale, abbiamo cercato di costruire un percorso tra passato, presente e futuro. A ciascun gruppo di insegnanti ed educatori chiedevamo di parlare del presente attraverso la parola che meglio li rappresentava in quel dato momento, quindi di raccontarci in cosa avevano faticato di più ma anche cosa sentivano di essere riusciti a proporre ai ragazzi durante il lockdown, e infine di dirci cosa di quella esperienza si sarebbero portati nella loro cassetta degli attrezzi. La cosa interessante è che guardando a sé stessi e ai colleghi senza gelosie o invidia, perché ascoltati come ‘persone’, ciascuno di loro aveva l’occasione di mettere in luce quella che Vygotskij chiama l’area prossimale di sviluppo. Costretti dalla situazione e grazie al supporto di colleghi più disponibili del solito o di educatori, sostenevano di aver scoperto nuovi modi di fare l’insegnante. Un dato epocale, se è vero che il problema dell’insegnante è quello di tendere a riproporre sempre lo stesso metodo».

In un contesto formativo certamente privilegiato come quello di Torino e di PAS, spiega Valeria Lucatello, molti insegnanti si sono così impegnati a trovare nuovi modi, più giocati e ludici, per stare con gli alunni. Per avere un ritorno immediato, un feedback, infatti, sentivano di dover usare molta più interattività rispetto a quella a cui erano abituati. Da quell’esperienza ciascuno di loro sentiva di portarsi dietro qualcosa di nuovo sul modo di essere e di fare l’insegnante, che gli sarebbe potuto tornare utile a partire dalla ripresa a Settembre

«Un altro fiorellino sbocciato dal lockdown sono i nuovi, inaspettati, patti di collaborazione che si sono stabiliti con le famiglie dei ragazzi. Le famiglie hanno potuto cogliere lo sforzo che la scuola ha fatto per restare accanto ai loro figli, e hanno potuto vedere i loro figli rivolti verso la scuola e l’apprendimento, un atteggiamento che di solito non colgono. Gli insegnanti, d’altra parte, entrando nelle case hanno cominciato a scoprire cose che prima non sapevano dei propri alunni, e che invece possono essere fondamentali.  Un insegnante ci ha detto: ho scoperto quanto è importante capire da dove viene il ragazzo… ora ne terrò di più conto per capirlo meglio».

Dopo tanti anni di scaffolding nel mondo della scuola con alunni, insegnanti, educatori, genitori, sono tante le lezioni che Valeria Lucatello ha imparato e si porta dietro. La più importante la condivide con un messaggio vocale WhatsApp, dopo avermi chiesto un po’ di tempo per riflettere.

«La cosa più importante è quando uno riesce a intervenire a recuperare questi ragazzi. Perché se arriva tardi, il danno è troppo grande e non si può più aiutare. Allora l’esserci nella fascia evolutiva di crescita è importante tanto il quandoriuscire a esserci. E questo mi ha fatto sempre di più convincere che bisogna lavorare più sul prima che sul dopo, quando il danno è avvenuto. Altrimenti è difficilissimo»

Il messaggio vocale è accompagnato da un breve testo scritto anni fa da un ex alunno della scuola di seconda opportunità, il ragazzo più complicato, quello che purtroppo non riuscirono ad aiutare. Recita così: Perché le persone non cambiano: perché sono abituati a fare queste cose. È colpa della gente che frequentano. Anche la famiglia. Ai genitori non gliene importa dei figli. I figli impareranno solo le cose sbagliate. Anche se la madre ci ripensa ormai è troppo tardi.

Attraverso IF-Imparare Fare, l’associazione creata da Marco Rossi Doria, Valeria Lucatello collabora attualmente anche con la Fondazione Paolo Bulgari. Ci aiuta a costruire ponteggi con le scuole nell’ambito del progetto TORNASOLE.