Il rapporto Invalsi 2020-2021, presentato oggi a Roma al cospetto del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, conferma purtroppo quanto in questo anno e mezzo ci hanno raccontato le scuole con cui collaboriamo: i molteplici ostacoli creati dalla pandemia al normale svolgimento delle lezioni in presenza – la didattica dell’emergenza, da casa, a intermittenza – hanno rallentato, com’era logico attendersi, i processi di apprendimento degli studenti, in particolare di coloro che provengono da contesti socio culturali svantaggiati. Un dato due volte allarmante, ha ricordato Anna Maria Ajello, presidente uscente dell’Istituto, perché i test misurano le «competenze fondamentali» di bambini e ragazzi: italiano, matematica e inglese. Fondamentali in quanto saperi «a fondamento dell’esercizio stesso del diritto di cittadinanza».

Dopo l’inevitabile sospensione delle rilevazioni nel 2020 causa lockdown, le nuove prove mostrano un significativo scadimento degli esiti nei diversi ordini di scuola, con l’eccezione positiva della scuola primaria, dove i risultati si mantengono stabili rispetto al 2019. Nella scuola secondaria di primo grado, l’incremento degli studenti che non ottengono risultati adeguati è di 5 punti percentuali in italiano e di 6 punti in matematica, nella scuola superiore è addirittura di 9 punti sia in italiano che in matematica.

Profondi, inutile dirlo, sono i divari territoriali tra le regioni (in Campania il 64% degli studenti non raggiunge la soglia minima in italiano, il 73% in matematica) e «in tutte le materie», si legge nel rapporto, «le perdite maggiori di apprendimento si registrano in modo molto più accentuato tra gli allievi che provengono da contesti socio culturali più sfavorevoli con percentuali quasi doppie tra gli studenti provenienti da un contesto svantaggiato rispetto chi vive in condizioni di maggiori vantaggio». I risultati diffusi non lo dicono, ma forti diseguaglianze si riscontrano anche a livello di città metropolitane, tra centro e periferie.

Un altro dato allarmante mostra l’incremento della «dispersione implicita»: ben 45 mila ragazzi tra i 18 e i 19 anni, il 9,5% dei diplomati (+ 2,5% rispetto al 2019), portano a compimento il loro ciclo di studi con competenze di base così scarse da essere «attese al massimo al termine del primo biennio della scuola secondaria di secondo grado, quando non addirittura alla conclusione del primo ciclo di istruzione».

«Il rapporto Invalsi – ha commentato il ministro – è un richiamo alla realtà di un paese che per anni NON ha messo la scuola al centro del paese. Si potranno invertire questi dati e contrastare le profonde diseguaglianze educative, solo investendo più risorse e coinvolgendo tutti i possibili attori territoriali: province, comuni, fondazioni, a partire dallo 0 – 6, dove si registra il picco delle diseguaglianze. Bisogna rimettere la scuola al centro dello sviluppo del Paese perché non ci può essere sviluppo senza una scuola che funziona».