L’appartamento in cui abita Giulietta Stirati è incastrato nella borgata di Torre Angela, in una palazzina seminascosta dentro un dedalo di vie strette. La terrazza all’ultimo piano affaccia su Tor Bella Monaca; i palazzi grigi e squadrati di via Aspertini sono lì ad un passo. “Non vivo qui da molto tempo”, racconta, “mi sono trasferita dall’Alberone qualche anno fa, perché volevo allontanarmi da quella zona”. Un cambio di vita a cui ha fatto seguito anche uno spostamento professionale: “prima insegnavo lettere al Kant, sulla Casilina, poi ho chiesto il trasferimento all’Amaldi”. Capelli di un biondo molto chiaro, tatuaggi che spuntano dalle maniche del maglione, voce appassionata che incede con pacatezza. Mentre si racconta, Giulietta non nasconde le asperità del rapporto con il quartiere che ha scelto.

Città brutte, persone “cattive”

“È davvero difficile abitare in questa parte di Roma, perché mancano delle cose che invece dovrebbero essere scontate, come i marciapiedi”. O come i luoghi di aggregazione, gli spazi per camminare serenamente. “Qui non si può andare a fare una passeggiata senza prendere la macchina; i miei studenti si incontrano al centro commerciale”. Lacune urbanistiche che si traducono in vuoti sociali, segnando anche l’umore e i comportamenti individuali. “Manca il senso della città, il senso della comunità”. Per spiegarsi meglio, Giulietta ripesca dalla memoria una citazione di Elio Vittorini che gli ripeteva spesso suo padre: le città brutte rendono le persone cattive. “Cattive nell’accezione latina di prigioniere”, spiega, “perché cattive diventano le persone prigioniere dei propri bisogni impellenti”. Quello che accade, secondo la sua esperienza, nelle periferie dimenticate dalla politica, dove ognuno finisce per curarsi solo il suo spazio privato, trascurando tutto il resto. “Per questo, io sostengo tutto ciò che ha a che fare con la lotta per rendere questi luoghi dei posti fatti per le persone”. Iniziative come quelle portate avanti da Tor Bella Monaca Scuola Popolare o dal Cubo Libro , con cui collabora.

La cultura libera

E poi c’è la scuola in cui lavora, l’Istituto Amaldi, che Giulietta definisce “un vero presidio, un polmone fondamentale, perché permette ai ragazzi di sperimentare cosa significa vivere in gruppo e gli trasmette l’idea del tempo e dello spazio collettivi”. Una scuola che la fa sentire viva, parte di una società che può ancora provare a cambiare le cose. Eppure, in cattedra lei ci è arrivata quasi per caso. “Sono figlia di due insegnanti e non volevo fare la loro stessa vita, preferivo fare ricerca all’università; poi, per un motivo banale, ho iniziato a lavorare a scuola e ho continuato; adesso sono trent’anni che insegno e sono grata ai ragazzi e alle ragazze che ho incontrato, perché mi hanno fatto scoprire tantissimo; ogni tanto, però, ho qualche rimpianto, perché la scuola stanca, sfinisce”. Entrare in classe fiacca la resistenza soprattutto di chi nel sistema dell’istruzione si sente sempre un diverso, un paria, magari perché rifiuta la logica della severità fine a sé stessa, che si esprime nei voti bassi e nelle bocciature. “I miei maestri sono Gianni Rodari, Don Milani e Bell Hooks e penso che la cultura debba piantarla di essere il potere di pochi su tanti; la cultura libera, io parto da questo”. E da qui fa scaturire, a cascata, tutta la sua didattica. “Abbiamo bisogno di persone che sappiano attingere al proprio potenziale; un ragazzo non puoi riempirlo di compiti, mettergli due e dirgli che non vale niente”.

Insegnare è politica e militanza

Dietro le parole di Giulietta si intuisce una visione politica, che lei non nasconde. “Quelli che sostengono che la scuola non deve fare politica non sanno cosa dicono; la scuola è politica, l’insegnamento è militanza, e bisogna esserne consapevoli”. L’importante è che questo non si traduca in malcelata propaganda. “Io in classe non direi mai per chi voto, però mi posiziono, perché penso che insegnare significhi prendere posizione senza influenzare”. Un equilibrio difficile da mantenere ma possibile. “Se ti posizioni apertamente e lasci spazio al contraddittorio non rischi di influenzare; la bravura dell’insegnante sta nell’educare sé stesso all’ascolto dell’altro; ho molta fiducia negli studenti, perché in loro i pregiudizi non sono irrimediabilmente radicati come in tanti adulti”.