27 marzo. Il 13 febbraio, a Como, ho partecipato a un importante incontro organizzato da Assifero insieme a una quarantina di rappresentati di alcune delle principali fondazioni italiane chiamate a contribuire alla sesta edizione del rapporto annuale di Ariadne, il network degli enti filantropici europei.

Ci era stato chiesto uno sforzo di immaginazione: dovevamo esprimerci sugli scenari prossimi venturi e indicare le principali minacce del 2020. Su 40 brillanti interventi (dedicati a temi cogenti come il climate change, il populismo dilagante, la messa in discussione di diritti consolidati, la crescita di diseguaglianze e povertà) soltanto uno, verso la fine, aveva puntato il dito sull’epidemia Covid19 che imperversava da oltre due mesi in Cina e aveva dato le prime prove di sé anche in Italia. Ma anche quell’unico preveggente era ben lontano dall’immaginare quali sconvolgenti proporzioni avrebbe assunto la crisi di lì a poche settimane.

Tra le tante cose che ci sta insegnando questo dramma epocale, ai primi posti c’è sicuramente la conferma della nostra limitatissima capacità di immaginazione. Sappiamo immaginare perlopiù solo ciò che abbiamo davanti al naso. Il nostro deficit immaginativo può avere ricadute profonde anche sul versante educativo, ricorda Trevor Noha in ‘Nato fuori legge’, magnifico racconto (auto-biografico) di un’infanzia vissuta pericolosamente nei ghetti di Johannesburg durante l’apartheid. “In genere si dice alla gente di seguire i propri sogni, ma si possono sognare solo quelli che si possono immaginare, il che dipende molto dalle tue origini. In certi casi la tua immaginazione può essere molto limitata. Crescendo a Soweto, tra i sogni poteva esserci quello di aggiungere un’altra stanza alla casa. Magari avere un vialetto. Addirittura, un giorno, un cancello di ferro battuto davanti al vialetto. Perché non conoscevamo altro. Ma il top delle possibilità era molto oltre il visibile” (non perdetelo, Ponte alle grazie, pag. 94).

Dovremmo tenere bene a mente questa lezione anche oggi. Travolti dalla pandemia e investiti ogni giorno dalle immagini angosciose dell’emergenza sanitaria, non riusciamo a vedere e a immaginare altro. È umano che sia così. Eppure, proprio in questo momento dovremmo sforzarci di pensare anche al dopo, quando (quando?) la fase acuta dell’epidemia sarà alle nostre spalle e dovremo fare i conti con le macerie economiche, sociali, psicologiche, educative, della crisi.

Per riuscirci dobbiamo compiere davvero un grande sforzo di immaginazione perché quello che ci aspetta, non l’abbiamo mai visto. Se l’uno-due della doppia recessione 2008-2011, innescato dalla crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti, da noi ha avuto l’effetto di quadruplicare in un decennio i tassi di povertà assoluta delle famiglie con bambini, cosa ci dobbiamo aspettare dopo una tragedia globale di simile portata? E cosa accadrà nei quartieri più fragili e periferici dove in molti sopravvivono perlopiù con lavoretti in nero, e dove già oggi si registrano livelli altissimi di dispersione scolastica e di disoccupazione giovanile?

Riflettere sugli scenari futuri è di vitale importanza in questo momento per chi vuole contribuire alla ricostruzione. Il dibattito è aperto anche tra fondazioni. C’è chi ha puntato sull’intervento sanitario immediato; c’è chi invece pensa che le fondazioni possano fare la differenza nel medio e lungo periodo sostenendo le organizzazioni del Terzo Settore drammaticamente esposte alla crisi, come ha recentemente sostenuto Carola Carazzone, segretaria generale di Assifero , sulle pagine di Vita. “È proprio in un momento di crisi che le fondazioni possono avere l’umiltà e il coraggio di usare la loro libertà e la loro flessibilità. Innanzitutto, ascoltando gli enti beneficiari che sostengono e dando loro fiducia. Sono gli enti del terzo settore stessi i più autorevoli nel sapere di che cosa hanno bisogno per fronteggiare la crisi”.

Nella stessa direzione si muove la dichiarazione di intenti proposta da due importanti network della filantropia, DAFNE (Donors and Foundations Networks in Europe) e EFC (European Foundation Centre) alle fondazioni europee, affinché sostengano le organizzazioni del Terzo Settore. “Noi, i firmatari, siamo consapevoli che la pandemia COVID-19 è un evento inaspettato che avrà un impatto senza precedenti sulle organizzazioni della società civile e sugli enti del Terzo Settore. Per questo ci impegniamo a essere vostri partner e ad offrire il nostro supporto nelle prossime settimane e mesi…”.

La Fondazione Paolo Bulgari ha imboccato questa strada all’inizio dell’emergenza facendo pervenire il proprio sostegno, con li progetto “vorrei…manonposso”, alla Caritas di Roma, impegnata a dare un tetto a chi non ce l’ha, e la percorrerà con coerenza nei prossimi mesi andando in soccorso alle realtà del Terzo Settore nei quartieri sensibili della Capitale.

In un quadro segnato da grandissima incertezza, d’altra parte, almeno una cosa è chiara. Finita la fase più acuta dell’emergenza e tornati a veder le stelle, dovremo usare tutta la nostra immaginazione per riuscire ad abbracciarci molto meglio di quanto facevamo prima. Perché da questa crisi epocale potremo uscire solo stando tutti insieme e con azioni di sistema.