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Il dibattito sulla scuola è un rumore di fondo. Se ne parla a qualsiasi ora del giorno. Come per la Nazionale, ognuno ha le sue ricette: investimenti, personale, formazione, orientamento, valutazione, curriculum, edilizia scolastica, politiche inclusive, ottime idee, massimi sistemi. Dell’effettivo funzionamento delle scuole a Roma, quella rete diffusa di istituti che innerva con le sue funzioni lo spazio-tempo della città, si parla meno.
Nella capitale le scuole fanno notizia quando crolla un controsoffitto. Mancano all’appello sia una ricerca approfondita sullo stato di salute e sui bisogni specifici dei singoli nodi della rete (per una mappa introduttiva cfr. Open Polis/Con i bambini, «Gli edifici scolastici a Roma», 27 ottobre 2020), sia un’analisi degli interventi di integrazione/riqualificazione programmati dai piani (PRG, PRU, ecc) e mai realizzati, sia una raccolta aggiornata dei dati fini sulla dispersione scolastica, sia un qualsiasi tentativo di perimetrazione delle aree prioritarie di intervento. Tranne qualche voce isolata non si vede all’orizzonte una riflessione politica complessiva su cosa potrebbe (e dovrebbe) ancora fare la città per rilanciare la sfida educativa, dalla riqualificazione dell’edilizia scolastica, all’innovazione didattica, alla lotta alla dispersione nei territori sensibili.
Una curiosa amnesia se è vero che da una ventina d’anni gli enti locali hanno acquisito nuove e importanti competenze anche in materia di istruzione. Se fino ad allora i comuni avevano un ruolo prevalentemente di servizio nei confronti degli istituti statali (la fornitura di locali, illuminazione, riscaldamento; la manutenzione ordinaria e straordinaria), dalla fine degli anni Novanta (DL 112/1998) hanno guadagnato sulla carta la possibilità di contribuire attivamente anche in altri settori strategici della sfida educativa: dagli interventi volti a favorire le pari opportunità di istruzione a quelli perequativi, dalla prevenzione della dispersione scolastica all’orientamento, eccetera.
Oggi le politiche educative assorbono una grande quantità di energie e risorse su scala comunale. Allo stesso tempo, le attività promosse dai comuni (e da altri enti locali) finiscono per avere un impatto determinante sul funzionamento delle scuole e sulla concreta attuazione del diritto allo studio. Anche se nei nostri discorsi tendiamo a dimenticarlo.

Il colosso dai piedi d’argilla

L’impegno profuso dalla città di Roma per garantire il diritto all’istruzione è iscritto nel bilancio comunale. Lasciando da parte l’investimento cospicuo per gli asili nido e la primissima infanzia, rubricato alla voce ‘sociale’, la Capitale compartecipa alle spese per l’istruzione con 850 milioni di euro, 300 euro procapite contro i 317 di Milano. 111 euro procapite sovvenzionano il funzionamento delle scuole comunali per l’infanzia (321 strutture che ospitano circa 33.000 bambini di 3-5 anni, poco meno della metà del bacino di utenza potenziale); 69 euro servono alla gestione delle scuole comunali primarie e secondarie di primo grado; altri 118 euro (contro i 74 di Milano) finanziano alcuni interventi volti a «rendere effettivo l’esercizio del diritto allo studio», quali ad esempio i trasporti scolastici, la refezione (30 milioni di pasti l’anno per 150.000 bambini e ragazzi delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di I grado), i corsi estivi, eccetera. Innumerevoli sono i compiti attribuiti dal sito di Roma capitale al Dipartimento Servizi educativi e scolastici del comune: la regia dei servizi per i bambini da 0 a 6 anni, la programmazione delle linee guida per la manutenzione del patrimonio scolastico, l’aggiornamento del personale educativo e scolastico, la rappresentanza tecnica per le attività relative al patrimonio edilizio scolastico, la promozione di attività «per l’arricchimento formativo degli studenti, il dialogo e l’integrazione, il contrasto del disagio e della dispersione scolastica».
Nei piccoli comuni la politica del decentramento in materia di istruzione ha favorito un avvicinamento tra scuole ed enti locali, portando benefici concreti. «La relazione tra scuola ed ente locale è più agevole e stretta nelle realtà territoriali medio-piccole, nelle quali l’istituzione scolastica è maggiormente percepita come un elemento basilare per l’identità culturale e sociale del paese o della piccola città. In queste realtà, inoltre, il rapporto tra il dirigente scolastico e i rappresentanti del comune, a partire dal primo cittadino e dall’assessore delegato all’istruzione, sono molto intensi e pressoché quotidiani» (Bonelli, «Il rapporto tra scuola e enti locali»). In alcune realtà l’alleanza si è tradotta nella stipula di convenzioni e protocolli per disciplinare i rapporti tra scuole, ente locale e territorio, che hanno permesso l’attivazione di patti educativi e canali stabili di confronto, favorendo una maggiore integrazione di servizi e risorse territoriali.
Nelle grandi città i benefici del decentramento si sono avvertiti molto meno. Figuriamoci in una metropoli affetta da gigantismo: 1.287 chilometri quadrati di superficie, 440.000 minorenni di cui 130.000 bambini 0-6 e 285.000 6-16enni nella fascia dell’obbligo (Demo.istat.it, popolazione residente al 1° gennaio 2020, post-censimento), 303 istituti scolastici principali per alcune migliaia di plessi. Colosso dai piedi d’argilla, Roma gira a vuoto da anni, zavorrata da procedure bizantine e una burocrazia infernale, nella quale perfino il primo e fondamentale compito di un ente locale nei confronti dell’istruzione pubblica – la fornitura e la manutenzione di spazi idonei per lo studio, funzioni demandate ai municipi solo fino a un certo punto – rischia di diventare un’impresa. Come si evince se si passa dalle statistiche all’ascolto del territorio.

Scuole di frontiera: il caso del VI Municipio

Da anni un grido di protesta si leva dai margini orientali della città. Gruppi di genitori e comitati di quartiere denunciano la penuria di aule e una situazione di cronica emergenza educativa. Il problema è noto: mentre nei quartieri centrali l’età media si alza e le scuole si svuotano, nelle nuove periferie e nei comuni della cintura metropolitana, la popolazione minorile continua a crescere e le aule non bastano. Tra il 2010 e il 2018 il VI municipio ha visto raddoppiare la popolazione 3-5 anni (così come il V e il VII; nel II municipio invece si è dimezzata), le 21 scuole comunali dell’infanzia possono soddisfare solo una piccola parte della domanda potenziale e lunghe liste di attesa vengono assorbite solo in minima parte nel corso dell’anno (Comune di Roma, «Le scuole dell’infanzia a Roma Capitale», 2018-2019). Nell’estrema propaggine di Castelverde la scuola d’infanzia riesce a far posto solo ai bambini di 5 anni e non ci sono aule a sufficienza nemmeno nel locale istituto comprensivo di via Città Sant’Angelo, interamente «tramezzato» qualche anno fa per fare spazio agli alunni in esubero. «Quest’anno siamo riusciti a mettere a bilancio e a realizzare il progetto definitivo per sei nuove aule, – dice Alessandro Gisonda, assessore alla scuola del VI Municipio – anche a Finocchio abbiamo sbloccato cinque aule completate da tempo e mai utilizzate per un contenzioso. Ma continuiamo a inseguire le emergenze, a fare interventi tampone, tramezzature, abbattimenti, redistribuzioni, ritagli, rincorrendo le tempistiche assurde della burocrazia comunale che si devono incontrare con le tempistiche delle scuole. Servirebbe un sistema di programmazione degli interventi di manutenzione, una banca dati informatizzata direttamente accessibile, dove far convergere flussi di dati e informazioni dalle scuole e dalle realtà sociali del territorio. Oggi ci dobbiamo accontentare di fogli excel: lavoriamo il doppio e raccogliamo un decimo». C’è un deficit di risorse, come sempre, ma il vero problema è rappresentato dalla cronica difficoltà da parte degli enti preposti di programmare, progettare, spendere e monitorare, come si evince dalla lunga lista di opere promosse negli anni e mai completate a causa di un ampio campionario di inciampi, contenziosi, vizi di forma: una scuola d’infanzia incompiuta a Lunghezza, un’altra in attesa del progetto definitivo a Lunghezzina; un asilo nido fermo da 10 anni alla Borghesiana; una procedura d’esproprio abortita a Finocchio; una scuola già finanziata a Corcolle (4 milioni di euro) sepolta da tempo immemore negli uffici di progettazione del comune.
Il VI municipio è un caso interessante per chi voglia studiare i cortocircuiti della macchina capitolina. Più esteso di Firenze, una popolazione comparabile a quella di Verona (256 mila abitanti!), presenta un paesaggio molto variegato al suo interno, nel quale il più grande insediamento di edilizia pubblica di Roma coesiste fianco a fianco con immensi quartieri proliferati per decenni senza marciapiedi, senza verde pubblico, senza spazi per il gioco, in maniera ‘spontanea’ (Torre Angela, Borghesiana, Lunghezza, Lunghezzina), il margine orientale punteggiato dai nuovi brandelli urbani spuntati in tempi più recenti intorno a piccoli borghi rurali (Castelverde, Villaggio Falcone, Villaggio Prenestino, Colle del Sole, Castiglione, Osa, Corcolle). Questa città nella città fatta di paesi in continua espansione è caratterizzata da una concentrazione esplosiva di disagio sociale (il reddito medio delle famiglie è due volte e mezzo più basso di quello del Municipio, cfr. Comune di Roma, «I numeri dei Municipi, Benessere economico: i redditi del 2018») e di giovani: vanta l’età media più bassa (41,9 anni contro la media di 45,9) e la percentuale più elevata di minori 0-14enni (15,8% contro una media del 13%, cfr. Comune di Roma, I numeri dei Municipi, Popolazione: anno 2019). A governare il tutto presiede (o meglio, dovrebbe presiedere) una piccola centralina operativa dal raggio di azione limitato e una scarsa autonomia operativa. L’assessorato alla scuola, ad esempio, ha competenza diretta sulle 21 scuole dell’infanzia comunali, ma deve preoccuparsi anche della manutenzione ordinaria e straordinaria di 35 scuole dell’infanzia statali e di ben 23 istituti comprensivi, per un totale di oltre 130 plessi scolastici. Alla progettazione e manutenzione di questo discreto patrimonio immobiliare è preposto un ufficio tecnico composto da 2 amministrativi e 9 tecnici, che si deve occupare anche di tutte le altre strutture di pertinenza municipale (sedi, centri anziani, biblioteche, eccetera). L’evidente sotto-dimensionamento del personale (come avviene l’allocazione delle risorse tra i diversi municipi? si tengono presenti dimensioni, bisogni, indicatori territoriali? Ci pensa la politica?) è solo un corno del dilemma, forse neanche il più importante. L’altro è rappresentato dalla nota mancanza di autonomia operativa del municipio, privo di competenze effettive su urbanistica e patrimonio. Con la conseguenza che, una volta istruite a livello municipale (ammesso che ci si riesca), le pratiche cominciano un viaggio avventuroso a bordo di diligenze di carta (il processo di digitalizzazione procede a rilento) attraverso dipartimenti centrali intasati, scrivanie polverose, cumuli di altri faldoni inevasi provenienti da tutta la città, nella speranza che un bel giorno riescano a riemergere dal pantano e a tornare indietro recando pareri, approvazioni e agognate autorizzazioni a procedere.
Le pratiche per garantire almeno il grado zero del diritto allo studio non sono ovviamente che una parte dell’improbo lavoro burocratico in capo ai municipi in fatto di istruzione. A questo bisogna aggiungere la restante selva procedurale (determinazioni, affidamenti, gare, eccetera) necessaria per assicurare mense, trasporti, corsi estivi, assistenza agli alunni con disabilità. Una montagna di carte che sottrae tempo e risorse alla relazione tra ente locale e scuole, a loro volta seppellite sotto una giungla di scartoffie.

L’assenza delle politiche vista da una scuola di Tor Bella Monaca

Agli effetti dei cortocircuiti amministrativi appena descritti, si somma nelle periferie l’assenza di politiche nazionali volte a sostenere le scuole di frontiera. Malgrado i noti squilibri che caratterizzano la penisola, il nostro Paese non ha mai seriamente sperimentato una strategia per rispondere ai bisogni di queste scuole (per una trattazione approfondita, cfr. Save the Children, Atlante dell’infanzia a rischio 2017, «Lettera alla scuola», e 2018, «Le periferie dei bambini», a cura di G. Cederna). Il timido tentativo avviato vent’anni fa con il progetto ‘Aree a rischio’ si è risolto fin da subito in una distribuzione a pioggia, senza criteri territoriali stringenti, di pochi spiccioli utili al massimo per micro-progetti didattici. Nulla di paragonabile a quanto si è cercato di fare negli ultimi decenni in Inghilterra (ad es. con il programma Every Child Matters), e fin dagli anni Ottanta in Francia.
Anche il sistema dei bandi – l’unico che consente di finanziare le scuole oltre l’ordinario, ad esempio i progetti di contrasto alla dispersione scolastica – è un meccanismo cieco, incapace di distinguere priorità e bisogni. Un dispositivo che finisce spesso per penalizzare proprio le scuole più svantaggiate, non in rete, meno attrezzate per progettare, in altre parole proprio quelle realtà che avrebbero più bisogno di aiuto. Non a caso i rapporti PISA continuano a ripetere che le scuole del nostro Paese “con una maggiore popolazione di studenti svantaggiati tendono ad avere meno risorse rispetto alle scuole con una popolazione più favorita di studenti» (OCSE 2014). Un paradosso che contribuisce ad approfondire i divari.
Prendiamo l’istituto comprensivo Melissa Bassi, anch’esso situato nel VI municipio, all’interno di Tor Bella Monaca, quartiere di edilizia popolare segnato da livelli di deprivazione elevatissimi (Osservatorio Casa Roma stima che il 41% delle famiglie residenti nei 1400 alloggi di proprietà regionale dell’ATER versi in condizione di povertà assoluta), in fondo a uno stradone dalla cattiva nomea (in tedesco schlechte Adresse, «cattivo indirizzo»). È del tutto evidente che per funzionare in un contesto ambientale così complesso la scuola avrebbe bisogno di attenzioni e aiuti specifici. Se fossimo in Francia il ministero competente l’avrebbe inserita da tempo in un programma per Zone ad alta priorità educativa (ZEP), in seguito ribattezzate Zone urbane sensibili (ZUS), e dal 2014 (governo Hollande) farebbe parte di una Rete a più elevata priorità educativa (REP+), un programma che riconosce agli insegnanti di queste scuole una doppia indennità, prevede la compresenza in classe di più docenti, la selezione di dirigenti formati e equipe interdisciplinari (psicologi, assistenti sociali, infermieri), una ricca dotazione di attrezzature e dispositivi digitali, e più ore di ricevimento per coinvolgere le famiglie. Visto che siamo in Italia, a Roma, nel VI municipio, a Tor Bella Monaca, la Melissa Bassi non solo non ha potuto fare affidamento su incentivi o interventi ad hoc, ma per otto lunghi anni se l’è dovuta cavare con dirigenti meteora o reggenti che hanno cercato di mantenere la barra dritta tra numerosi altri impegni, una quota minima di docenti stabili (meno di un terzo), un turnover continuo di insegnanti pescati a caso dalle graduatorie ad esaurimento e buttati dentro senza preparazione specifica, alcuni ad anno scolastico abbondantemente avviato, in una bella struttura che necessità di manutenzione, priva fino all’anno scorso di dispositivi digitali e laboratori innovativi (una sola LIM per la scuola media nella sala biblioteca). Per non parlare del sostegno evanescente offerto dai servizi sociali: nel municipio più problematico e giovane di Roma opera uno sparuto drappello di professionisti a rischio burn-out, oberato da centinaia di casi difficili (e liste di attesa infinite), che ruota sui territori senza offrire punti di riferimento stabili, né garantire un minimo di continuità per il follow-up dei casi. A scuola non li si vede mai, tutt’al più gli si parla al telefono per scambiare informazioni nei momenti difficili. L’unico aiuto concreto viene dai cosiddetti assistenti OEPA (Operatori Educativi per l’Autonomia e la Comunicazione), un altro servizio a responsabilità municipale (appaltato alle cooperative) che garantisce l’affiancamento dei bambini con disabilità. Alla Melissa Bassi sono una quindicina per una sessantina di alunni con bisogni speciali: la loro presenza è molto preziosa, ma il loro lavoro sottopagato è assai poco riconosciuto, tanto che durante il lockdown non potevano essere collegati in DAD.
«Qui l’assenza dello stato è il dato più evidente», si lascia scappare una giovane docente, una delle poche ad aver scelto di restare.

Scuole e territori: la chiave è la coprogettazione

L’isolamento della scuola si è in parte attenuato due anni fa con l’arrivo di una combattiva dirigente di prima nomina, Alessandra Scamardella, che da subito ha cominciato a lavorare alla coesione del corpo docente e alla costruzione di nuove alleanze educative. Anche la relazione con il territorio ha contribuito a lenire l’assenza delle istituzioni: il nodo del coinvolgimento dei genitori, spesso distaccati dal percorso educativo dei figli, resta irrisolto, “ma anche in questi mesi difficili la scuola si è confermata un punto di riferimento fondamentale per il quartiere – dice la dirigente – Tanti genitori hanno iniziato a chiederci aiuto per fare i tamponi, stampare i moduli di autocertificazione».
Nel frattempo l’abbraccio delle associazioni locali si è fatto più pressante. In un quartiere caratterizzato dalla penuria di spazi protetti per il gioco e di luoghi sicuri dove agganciare le famiglie (un paradosso che deve far riflettere, se è vero che siamo in un quartiere interamente pubblico), la possibilità degli istituti di dare in concessione a terzi l’utilizzo di spazi per svolgere attività oltre l’orario scolastico apre un ventaglio di opportunità allettanti. Da oltre vent’anni, l’indicazione di aprire le scuole al territorio è uno dei cardini dell’autonomia scolastica. Invitando le scuole a realizzare «interventi di educazione, formazione e istruzione adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo» (legge n. 59, 15 marzo 1999), la riforma ha rotto il fortino della scuola novecentesca e inaugurato la stagione delle scuole aperte.
Oggi il principio è condiviso da molti: la collaborazione con le famiglie e con le realtà associative del territorio può rafforzare la centralità della scuola, arricchire l’offerta socio-educativa, soprattutto nei quartieri più deprivati, e fornire un contributo determinante al contrasto della povertà educativa. Una prospettiva di lavoro fondamentale che tuttavia deve essere messa al riparo dal duplice rischio dell’«effetto delega» (da parte delle scuole) e delle «iniziative spot» (da parte delle associazioni). «Purtroppo in passato è prevalsa la formula della progettazione sulle scuole – dice Valeria Lucatello, psicologa e grande esperta di progetti che cercano di unire scuola e Terzo settore nella lotta alla dispersione – spesso a prescindere da un’attenta considerazione dei loro interessi e bisogni. Una modalità opportunistica che in molti casi ha determinato incomprensioni e chiusure nel corpo docente. Il grande tema allora è capire come riuscire a collaborare con la scuola, a partire dai singoli istituti e da una rimessa in questione della comunità educante».
Qualcosa si è cominciato a fare negli ultimi quindici anni con l’attivazione di progetti fondati sulla coprogettazione tra insegnanti e educatori, scuole e territorio. Valga per tutti l’esempio di Provaci ancora Sam, storico programma in corso a Torino con il sostegno del comune e della Compagnia San Paolo, e più di recente, su scala nazionale, il grande impulso fornito dai bandi promossi dall’impresa sociale Con i bambini, oggi guidata da un super esperto della materia come Marco Rossi Doria. A Roma si muove in questa direzione il progetto quadriennale Tornasole avviato nel V, VI e VII municipio da un network di 6 associazioni (Cooperativa Antropos, Borgo Don Bosco, DaSud, Cubo Libro, Pianoterra, IF-Imparare Fare) e 14 scuole, con il supporto di Fondazione Paolo Bulgari e di Con I Bambini. Ma siamo solo all’inizio.
Anche la recente indicazione del MIUR per la sottoscrizione di «specifici accordi, quali Patti educativi di comunità», tra «enti locali, istituzioni pubbliche e private variamente operanti sul territorio, le realtà del Terzo settore e le scuole», in modo da fortificare «l’alleanza educativa, civile e sociale di cui le istituzioni scolastiche sono interpreti necessari, ma non unici…», e il grande dibattito che ne sta seguendo, può costituire una buona occasione per riportare un po’ di metodo e di ordine. A Tor Bella Monaca, ad esempio, il liceo Amaldi (una delle eccellenze educative dell’immensa periferia romana) e la Melissa Bassi hanno appena siglato con il municipio e le principali realtà associative del territorio un patto nel quale la scuola torna a rivendicare il ruolo di centro propulsore e, allo stesso tempo, di sfondo integratore di una comunità spesso divisa. «Le scuole – si legge nel documento – consapevoli di dover assumere, in quanto agenzie educative, un ruolo propulsore di conoscenza culturale e civica, hanno da tempo assunto l’impegno di ‘aprirsi’ al territorio per contribuire alla crescita culturale… Il patto intende coordinare, in un sistema articolato e pianificato, tutte le azioni in modo da promuoverne l’efficacia e misurarne gli esiti (Liceo E. Amaldi, IC Melissa Bassi, Patto educativo di comunità, aprile 2021)».

Le scuole al centro dei processi di rigenerazione

Ritrovare la strada di scuola a Roma non è facile. Troppi output e troppi input, direbbe il Grande Lebowski. La lista di temi e bisogni potrebbe continuare per giorni. A differenza di Torino, Roma non ha un programma pubblico integrato di contrasto alla dispersione scolastica. Intanto la Scuola di seconda opportunità di Roma est ha dovuto chiudere i battenti dopo 18 anni per mancanza di fondi, e altri centri educativi di eccellenza navigano in cattive acque. A differenza di Milano, Roma non ha un Ufficio scuole aperte. La bella esperienza delle ‘scuole aperte e partecipate’, rete spontanea di una quarantina tra associazioni e comitati nati sul modello dell’associazione genitori della Di Donato, galleggia sospinta dal volontariato spesso senza trovare sponde adeguate nelle istituzioni.
Alcune cose si muovono, a tanti livelli, ma senza una visione di insieme, senza una regia, inseguendo le emergenze, mettendo qui e lì qualche toppa. Di scuole si parla raramente nei grandi dibattiti sul rilancio delle politiche abitative, sulla riqualificazione delle periferie, sull’urbanistica romana. Quasi le scuole non fossero il cuore della politica di una città, «gli elementi essenziali dell’attrezzatura di un quartiere, di un nucleo abitato, tra i primi fondamentali servizi grazie a cui un insieme di persone si trasforma in una comunità, non solo per il casuale luogo dell’abitazione, ma per una serie di interessi collettivi e per il contemporaneo sviluppo degli organismi comuni – ha lasciato scritto Italo Insolera – La mancanza di scuole, la loro ubicazione secondo criteri che prescindono dalla formazione organica dei singoli quartieri, l’assenza di verde pubblico sono perciò non solo quantitativamente delle gravi mancanze, delle insostituibili tare nell’organizzazione residenziale» (Insolera, Roma moderna, 2011, p. 235).
I quartieri, scriveva Ludovico Quaroni già nel 1957, si dovrebbero organizzare prendendo come «elemento di riferimento fondamentale» le attrezzature scolastiche, «centri della vita residenziale», per il loro valore educativo e «per il valore simbolico che rivestono nella formazione della coscienza democratica del cittadino» (Quaroni, La politica del quartiere, Urbanistica 22, luglio 1957, cit. in C. Melograni, Architetture nell’Italia della ricostruzione, 2015, p. 368).
«La madre di tutte le diseguaglianze è la penuria di istruzione – ha scritto Walter Tocci, riprendendo le cartografie dell’ingiustizia di Mappa Roma – Tra centro e periferia lo squilibrio di reddito è di tre a uno, ma nel titolo di studio diventa di otto a uno. Da qui derivano tutte le altre deprivazioni nel lavoro, nell’accesso ai servizi e soprattutto nel futuro dei giovani» (Tocci, Roma come se, 2020, p. 129). Rimettere le scuole e la comunità educante al centro delle politiche della città è allora un compito fondamentale. Si potrebbe cominciare immaginando che tutti i programmi di rigenerazione urbana e di rilancio dell’edilizia residenziale pubblica di cui tanto si parla per il Recovery plan, prevedessero una ricognizione dei bisogni delle scuole e degli spazi per l’infanzia, integrando di default il punto di vista e le analisi di insegnanti, educatori, rappresentanti della comunità educante. Sarebbe bello che il NextGenerationEU fosse almeno un po’ anche un Recovery school.
Roma ne ha un gran bisogno.