Nell’Aula Giardino inaugurata a dicembre presso l’Istituto Comprensivo Melissa Bassi di Tor Bella Monaca, Franco Lorenzoni si muove perfettamente a proprio agio. Sa cosa fare e cosa far fare ai ragazzi, come attirare la loro attenzione, come impegnare teste e mani. Lo supportano decenni passati a sperimentare tecniche didattiche nelle scuole elementari in cui ha insegnato e nella casa-laboratorio di cenci, che ha fondato ad Amelia, in Umbria. Un bagaglio di esperienze e di riflessioni che oggi è a disposizione anche degli insegnanti della scuola di via dell’Archeologia, con un corso di formazione promosso a fine ottobre dello scorso anno dalla Fondazione Paolo Bulgari nell’ambito del programma CRESCO. Educatore, scrittore, formatore: il maestro Lorenzoni è una voce ascoltata e apprezzata nel panorama italiano della pedagogia, teorizzatore di una scuola, che per essere davvero inclusiva ed efficace, deve superare i propri confini e dialogare con il mondo. Proprio in questi giorni ha dato alle stampe un nuovo libro dal titolo evocativo: “Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli” (Sellerio).
Maestro Lorenzoni, lei è tra i più convinti sostenitori dell’idea di una scuola che si apre alla città. Perché ritiene che questa contaminazione sia così importante?
Da questo punto di vista, com’è la situazione della scuola?
La scuola è una struttura spazialmente pigra. Al centro c’è la classe, che è pensata per ospitare, per l’80% del tempo, la lezione frontale e che spesso rimane sempre uguale. Ad esempio, mi fanno molta impressione, nelle scuole superiori, le aule completamente vuote, spoglie di tutto. Se pensiamo che qualsiasi stanza di adolescente è stracolma di immagini, di cose appiccicate, di simboli, dobbiamo concludere che l’aula è l’esatto opposto del luogo prediletto dai ragazzi. E questo rischia di moltiplicare le differenze che diventano discriminazioni, perché se uno si trova male e non è stimolato, è facile che si isoli, si distragga, non abbia voglia.
Come se ne esce?
Un primo passo è riconoscere il valore educativo degli spazi esterni, dove la libertà dei ragazzi è molto diminuita nel corso degli anni. Nella testa delle bambine e dei bambini, l’educazione non è legata solo alla scuola. L’idea di scuola sconfinata va in questa direzione ed è una strada percorribile. Ad esempio, ci sono state esperienze significative in Italia e nel mondo in cui c’è stato un investimento della società civile e produttiva che ha offerto alla scuola la possibilità di incontro con le professioni. Penso a Torino che è referente italiana delle città educative.
Quanto è urgente avviare questo cambiamento?
Molto. La scuola è decisiva e se è chiusa, pigra e monotona certifica le disparità. È soprattutto per gli strati più poveri e deboli della popolazione che la scuola svolge un ruolo chiave, perché non hanno altro. Se hai una famiglia abbiente, potresti anche non averne bisogno, quasi puoi fartela da solo. Se invece la tua famiglia è povera, non hai grandi possibilità di accesso alle conoscenze, alle esperienze, alla formazione. Prendiamo la questione dei NEET (ragazzi che non studiano, non si formano e non lavorano, ndr): dentro, secondo me, c’è anche un problema di immaginario, cioè di immaginarsi delle cose che si possono fare nella vita. Se uno è ricco, i genitori lo portano in giro e vede tante cose, se uno è povero, anche il suo immaginario spesso è povero. Questo è profondamente antidemocratico. Ecco, in questo senso, la scuola da sola non può cambiare il mondo ma può dare un contributo fondamentale al cambiamento.
IL TEMPO PIENO COME GRIMALDELLO DI DEMOCRAZIA
L’istanza fondamentale che muove il lavoro e il pensiero di Franco Lorenzoni è, per sua stessa ammissione, la volontà di dare dignità al pensiero dei bambini. Ed il primo necessario passo verso questa direzione è rappresentato dalla costruzione di una scuola che sappia davvero rispettare le esigenze dei suoi destinatari, che sia fatta a misura loro, soprattutto negli spazi e nei tempi. Quindi, dopo aver approfondito la questione dei luoghi educanti, a partire dal concetto di scuola sconfinata (nella prima parte dell’intervista, pubblicata il 24 marzo, ndr), non resta che dedicarsi all’altra faccia della medaglia: il tempo dell’educare.
Maestro Lorenzoni, come giudica lo stato attuale della scuola italiana rispetto alla questione del tempo dedicato all’apprendimento?
Io sostengo che ci dovrebbe essere un livello base nazionale: sotto 40 ore settimanali non si va. Oggi, nella scuola elementare, di norma, se ne fanno 29, divise in 5 giorni, che significa 6 ore al giorno. Ma non è possibile fare 6 ore al giorno, è assurdo, di fatto è una burla.
40 ore a settimana sono quelle del tempo pieno…
Esatto. Il tempo pieno è un grande grimaldello di democrazia, è alla base della scuola democratica. L’errore è stato quello di introdurlo solo su richiesta. Sbaglio a cui poi si aggiunge l’enorme differenza tra nord e sud in termini di disponibilità di posti nel tempo pieno. In alcune aree del mezzogiorno hanno accesso al tempo pieno meno del 5% dei bambini.
Qual è il valore aggiunto del tempo pieno?
Io sono affezionato al tempo pieno classico, 8 ore al giorno per 5 giorni, con il sabato libero. Ovviamente nel conto ci sono anche le ore della mensa e quelle del gioco e dello svago. Spesso non ci si rende conto che la mensa è un grande momento educativo, se fatta bene, cioè in locali non troppo rumorosi e possibilmente con la cucina interna. Mangiare con i compagni è un’esperienza importante ed allevia anche le famiglie da un’incombenza. Nel tempo pieno così organizzato, quindi, si fanno 4 ore la mattina, poi una pausa per mangiare e giocare e poi si riprende fino alle 16. È un tempo più disteso, perché non devi fare tutte le cose più pesanti la mattina ma puoi utilizzare anche le ore del pomeriggio. Oggi invece cosa succede: la scuola è concentrata la mattina, spesso 5 ore e mezza, quindi molto pesanti, e poi il pomeriggio c’è l’inferno dei compiti a casa.
Bocciati anche i compiti a casa?
Nella scuola primaria, io abolirei drasticamente i compiti. Alle 16 il bambino esce e basta, ha finito di fare scuola. Nei compiti a casa non c’è mai un valore aggiunto. I bambini che li fanno da soli sono quelli che non ne avrebbero bisogno. I bambini che da soli non riescono devono farsi aiutare e quindi i compiti diventano un impegno per i genitori e inquinano il loro rapporto con i figli. Conosco madri che passano ore a convincere i figli a fare i compiti, e non ha senso, perché non è il loro mestiere.
I compiti non possono essere un modo per coinvolgere i genitori nell’istruzione dei figli?
No. Quando la scuola è intelligente e fatta bene, coinvolge i genitori valorizzando qualcosa di intimo, ma certo non con i compiti a casa. La scuola deve curarsi del fatto che tra genitori e figli si possa parlare di cose interessanti e dare degli stimoli. Nel tempo famigliare è importante che il bambino goda delle peculiarità dei suoi genitori, che condivida altro con loro. Anche perché l’apprendimento è ovunque. La scuola formalizza alcuni apprendimenti, ma quelli informali sono altrettanto importanti, perché sono attività che il bambino sceglie, finalmente! Infatti, un altro problema della scuola italiana è proprio che non fa scegliere nulla, a parte l’indirizzo. A me piacerebbe che un ragazzo, ad esempio alle medie, possa decidere di fare un po’ più di matematica o di letteratura.
Un tempo scolastico più disteso consente anche di sperimentare una didattica diversa, come quella laboratoriale. È così?
Sicuramente se fai lezione all’aperto e lavori con i materiali, i tempi sono molto più lunghi, anche perché si torna e si ritorna più volte sulle stesse cose. E secondo me questo è un principio molto importante. Io sono dell’idea che a scuola si devono fare poche cose, meno di quelle che si fanno oggi, capendo quali sono quelle essenziali e imprescindibili. I bambini in difficoltà, se su una cosa ci torni e magari ne parli con un altro linguaggio, arrivano a comprenderla. Mentre se fai lezione – verifica – lezione – verifica, te ne perdi qualcuno.
L’approccio che lei propone, però, è difficile da digerire per i fautori della meritocrazia. Non si rischia, infatti, che i più bravi si annoino aspettando quelli che hanno più difficoltà?
No, perché quando io parlo di realizzare un’attività di laboratorio, intendo il luogo in cui ognuno fa secondo le sue attitudini. Il più bravo avrà modo di dimostrare che è più bravo, magari si inventerà un diverso modo di calcolare un angolo, oppure spiegherà a chi è meno bravo le cose che non ha capito. Il lavoro di gruppo ha senso quando ognuno assume un ruolo diverso e si uniscono intelligenze diverse.
Ma non è facile fare scuola così…
Non è affatto facile fare scuola in questo modo. Serve una formazione specifica sull’organizzazione. D’altra parte, la didattica è un grande mestiere artigiano, devi avere capacità di organizzare un gruppo e che incarichi dare. Tutto molto complicato, ci vogliono anni. Infatti, secondo me gli insegnanti dovrebbero fare formazione obbligatoria pagata. E dovrebbe essere in gran parte autoformazione, perché è l’unica efficace. Crei una rete di 4-5 scuole, prendi le persone che fanno meglio scuola, e questi docenti insegnano agli altri. Certo, non è detto che lo sappiano fare, però almeno ci si mette in gruppo, si prepara un laboratorio insieme, si condividono pratiche. Bisogna fare scuola ma anche fare la scuola.