Si intitola IEP, Interesse Educativo Prioritario, il programma presentato la scorsa settimana presso la Sala Adalberto Libera di Roma Tre, al Mattatoio, dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri e dall’assessora alla Scuola, Formazione e Lavoro, Claudia Pratelli. Prevede l’investimento mirato di 3,5 milioni di euro per il rafforzamento delle scuole e della comunità educante in cinque aree urbanistiche ritenute particolarmente bisognose di supporto in seguito a una ricerca condotta dall’Università Roma Tre. Per ciascuna zona IEP individuata – Borghesiana, Tor-Pignattara, Fidene, Labaro, Ostia-Nord – il Comune selezionerà, tramite apposito bando, un facilitatore che avrà il compito di mobilitare le scuole e le risorse educative locali con l’obiettivo di co-progettare un patto educativo e relativi interventi a contrasto della dispersione scolastica e delle povertà educative.
Nel panorama romano segnato in questi mesi dal clamore destato dalle inaugurazioni per il Giubileo e dal dibattito intorno alle grandi opere del PNRR, l’iniziativa rischia inevitabilmente di passare inosservata, derubricata alla voce “interventi minori”. Relativamente scarse sono le risorse impiegate (“solo” 3,5 milioni di fondi europei Pon Metro Plus, per un progetto della durata di poco più di due anni), inevitabilmente poco appariscenti le ricadute direttamente osservabili in città. Eppure il programma IEP costituisce sotto diversi aspetti una innovazione nel panorama delle politiche per l’assegnazione dei fondi pubblici in ambito educativo, e merita di essere seguita con particolare attenzione per le indicazioni che ci potrà dare.

La prima importante novità è quella di richiamarsi fin dal titolo a quel filone di interventi ispirati al principio della cosiddetta “discriminazione positiva” teorizzata dal pedagogista francese Bertrand Schwartz. Per cercare di controbilanciare le inevitabili diseguaglianze educative di partenza di bambini e ragazzi che abitano in contesti familiari e territoriali caratterizzati da profondi divari socio-economici, tali interventi si prefiggono l’obiettivo di cercare di offrire maggiori risorse a chi ha avuto meno possibilità. Perché, come diceva Don Milani, “non c’è ingiustizia più grande che fare parti eguali tra diversi”.
L’iniziativa del Comune di Roma si rifà esplicitamente al programma Bip/Zip adottato nel 2011 dalla città di Lisbona con l’obiettivo di ridurre la povertà nei quartieri svantaggiati: una strategia integrata che ha previsto la mappatura di 67 aree prioritarie di intervento e ha portato all’attivazione di un meccanismo di bandi per rafforzare la società civile nei quartieri, una governance multi-stakeholder locale, eccetera. Ma diversi sono gli interventi di discriminazione positiva avviati in Europa per sostenere l’istruzione nei contesti difficili, a cominciare dal più celebre di tutti avviato quarant’anni fa in Francia sotto la presidenza di Francois Mitterrand con l’istituzione delle cosiddette Zone ad alta priorità educativa (ZEP). Un programma che non sempre ha dato i risultati sperati, ma che rappresenta un laboratorio fondamentale di politiche e pratiche, sostenuto e implementato nel tempo da tutti i governi.
In Italia, al contrario, non è mai stato messo a punto un dispositivo nazionale capace di sostenere l’azione delle scuole di frontiera, con il risultato paradossale – più volte denunciato dalle indagini PISA – che “le scuole con una incidenza maggiore di alunni svantaggiati tendono ad avere meno risorse rispetto alle scuole con una popolazione più favorita di studenti” (un tentativo di perimetrazione al Sud era stato fatto nel 2017 – art. 11, decreto legge 91 – ma è rimasto lettera morta).
Ben venga quindi a Roma la messa in priorità di cinque territori a maggiore Interesse Educativo, così come a livello nazionale l’individuazione delle quindici aree Socio-Educative Strategiche ad opera dell’impresa sociale Con i Bambini: altra iniziativa fondata su criteri di discriminazione positiva, in partenza nelle prossime settimane anche a Roma nelle zone urbanistiche di San Basilio e Tor Cervara. Una strategia assai più convincente del consueto modus operandi “a pioggia”, con la dispersione di pochi spiccioli su una miriade di scuole.
Il secondo tratto di interesse dell’intervento IEP è quello di aver coinvolto preliminarmente il Dipartimento di Scienze della Formazione di Roma Tre in un percorso di analisi territoriale che ha il merito di ancorare il processo di selezione delle aree a dati oggettivi e di fornire alla città una mappa aggiornata su cui ragionare. Lavorando sulle tavole statistiche con base sub-comunale (a Roma, appunto, le zone urbanistiche), recentemente rilasciate dall’Istat nell’ambito della Commissione parlamentare di inchiesta sulle periferie , i ricercatori di Roma Tre hanno potuto sviluppare un apposito indice IEP, a partire da cinque indicatori maggiormente in correlazione al tema della povertà educativa secondo una nutrita letteratura: l’indice di non completamento del ciclo di scuola secondaria di I grado (come termometro della povertà educativa genitoriale), l’incidenza degli alunni di origine straniera, il tasso di disoccupazione 15 anni e più, il tasso di giovani non più in formazione, né al lavoro (i cosiddetti NEET), il tasso di giovani 18-24 anni in dispersione scolastica (i cosiddetti Early School Leavers, con al più la licenza media e non più in formazione). La classifica così ottenuta è stata successivamente depurata da quelle aree già beneficiarie di altri interventi (ad es. Torre Angela e San Basilio) e riequilibrata per garantire la copertura di più municipi.
Merita infine particolare attenzione la scelta di fondo operata dall’Assessorato alla Scuola nel definire la strategia di attribuzione dei fondi Pon Metro: la precisa volontà di non calare dall’alto idee progettuali già preformate, ma di cercare di coinvolgere fin dall’inizio le scuole e le diverse realtà territoriali (associazioni, genitori, parrocchie, comitati) nell’analisi dei problemi e nella individuazione delle risposte più opportune attraverso l’intervento di facilitazione di “community organizer” selezionati per l’occasione.
L’intenzione dichiarata è duplice. Da una parte si cerca di attivare e valorizzare l’intelligenza dei luoghi e le competenze maturate dalle scuole e dalle realtà del terzo settore: un antidoto provvidenziale alla tentazione di credere che la risposta ai bisogni debba venire innanzitutto dall’esterno, magari nella forma di un commissario governativo, come nel cosiddetto “modello Caivano”. Dall’altra si intendono favorire processi di integrazione, collaborazione e scambio di pratiche tra le scuole e i diversi attori territoriali, con l’obiettivo di cercare di superare uno dei maggiori limiti della tradizionale politica di attribuzione dei fondi per bandi: quello di aver contribuito a frammentare il campo della comunità educante, alimentando guerre per bande e progetti di piccolo cabotaggio.
Il progetto IEP nasce quindi all’insegna delle migliori intenzioni e può forse aprire nuove e interessanti prospettive di collaborazione tra scuola pubblica e privato sociale. Resta aperta una domanda: le comunità educanti romane (scuole, associazioni, cooperative) sono pronte a raccogliere la sfida? Alcuni segnali spingono all’ottimismo: a quanto ne sappiamo, la pratica della coprogettazione si è già andata diffondendo con successo nel Municipio XI (con la realizzazione di ben sei patti educativi sostenuti dall’istituzione locale e la promozione delle “palestre di comunità”), ha mosso i primi passi nel Municipio VI, ed è tuttora in corso di sperimentazione con risultati alterni nei cantieri PNRR di Corviale e Tor Bella Monaca per l’attribuzione dei fondi per i cosiddetti interventi “immateriali”.
Due tuttavia appaiono essere i vincoli che rischiano di inficiare in partenza questa più che meritoria operazione. Il primo, che si manifesta in maniera autoevidente, è sicuramente l’esiguità dell’orizzonte temporale previsto: due anni e mezzo sono davvero pochi per immaginare di impostare una progettazione di dettaglio e di portare a compimento, allo stesso tempo, le azioni previste, in un campo così complesso come quello del contrasto alle povertà educative, e nell’impossibilità nei fatti di far sedimentare le buone pratiche e di garantire ad esse adeguata sostenibilità. Il secondo sta nella paventata idea di assegnare la gestione dei fondi alle scuole che saranno coinvolte nei diversi Patti.
Ciò che la recente esperienza della Fondazione Paolo Bulgari può senz’altro testimoniare in proposito è che le scuole, in particolare gli istituti di frontiera interessati dal progetto, faticano spesso a garantire la gestione della operatività quotidiana, per non parlare dell’aggravio difficilmente sostenibile delle pratiche, a volte anche amministrative, proposte da un numero ingente di progetti di ogni ordine e sorta (esemplare il caso dei milioni di euro piovuti sulla testa degli istituti romani in occasione del PNRR, in molti casi rispediti al mittente). A fronte di tale situazione è difficile pensare che la parte amministrativo-finanziaria di un’azione tanto delicata e importante possa essere affidata, e svolta con efficacia, dalle stesse scuole che proprio su questo fronte vediamo oggi arrancare. Quello che è certo è che per dare vita ad un’azione significativa, il programma IEP avrà bisogno di un’opera continua di accompagnamento, raccordo e formazione a livello centrale, a garanzia che, pur nella diversità dei percorsi e delle attività promosse sui vari territori, si manifesti l’organicità della programmazione complessiva.
Al di là di questi non trascurabili aspetti, l’iniziativa conferma la bontà dello sforzo compiuto dall’amministrazione nel provare a rafforzare e ripensare le politiche educative, sulla scia di quanto fatto con il progetto “Scuole aperte”.
Qualche anno fa avevamo fornito un panorama piuttosto impietoso sulla situazione romana (leggi qui l’articolo). Bisogna riconoscere che qualcosa si sta muovendo. Perché produca risultati apprezzabili serve l’impegno di tutti coloro (e sono tanti) che considerano il futuro dei nostri figli una questione di Interesse Educativo Prioritario.