Da qualche giorno è stato reso noto dal MIUR il Piano Scuola 2020-21, volto alla pianificazione delle attività educative per il prossimo anno scolastico che si aprirà in salita a causa della “questione Covid” che, oltre ad avere lasciato un’eredità di pesantissimi postumi educativi, ancora incombe sollecitando i giustificati timori di una sua nefasta riapparizione e la necessità di prevenirla.

Il documento affronta diversi nodi del rientro a scuola, ma uno di essi è subito venuto al pettine suscitando un animato dibattito, e riguarda il coinvolgimento nei processi educativi della comunità non prettamente scolastica, citato nel testo come “Patto educativo di Comunità”.

Se si fosse chiamato diversamente forse avrebbe suscitato meno discussioni, ma il nome “patto educativo di comunità” è impegnativo, soprattutto se è inserito in un paragrafo dal titolo “Tra sussidiarietà e corresponsabilità educativa”, nel quale si richiamano i principi e valori costituzionali per i quali tutte le componenti della Repubblica sono impegnate nell’assicurare la realizzazione  dell’istruzione e della formazione. Le legittime aspettative di chi opera nel mondo della cultura e dell’educazione, sollecitate da tale premessa, si sono però immediatamente scontrate con la modestia delle esemplificate finalità della compartecipazione, consistenti  essenzialmente nel “favorire la messa a disposizione di altre strutture o spazi…al fine di potervi svolgere ulteriori attività didattiche o alternative..” e nel “creare le condizioni per la presenza…di personale….coinvolto non solo nei contenuti di queste attività ma anche nella responsabilità connessa ai compiti di sorveglianza e di vigilanza degli alunni”. Finalità che all’Educazione non sembrano lasciare grande spazio.

E’ su questo che si sono sollevate le perplessità di molte autorevoli voci del settore educativo e culturale italiano – quali quella di Pasquale Calemme, Direttore della Scuola del Fare; di Marco Rossi Doria, una vita da maestro di strada a Napoli, già sottosegretario all’Istruzione e neo vice-Presidente della Fondazione Con i Bambini; di una delle portavoci dell’Alleanza per l’Infanzia, Chiara Saraceno, sociologa e accademica; o ancora di Simona Rotondi, Responsabile per le attività istituzionali di Con i Bambini – che, con parole e sfumature diverse, hanno espresso il medesimo pensiero: relegare il concetto di comunità educante ad un prestito alla scuola, per quanto strutturato, di risorse umane e logistiche dal terzo settore – e più in generale da quella società che possa e sappia farsi parte attiva nell’accompagnamento alla crescita culturale e sociale dei ragazzi – è un colpevole spreco, un’occasione che l’Italia non può permettersi di perdere nel proprio nel momento in cui si palesa con tanta evidenza la concreta possibilità di coglierla: complice l’emergenza Covid, la rete territoriale ha mostrato che il suo “esserci” nel senso profondamente  educativo del termine, ha fatto la differenza sul campo, assicurando di non lasciare indietro coloro che, in mancanza di essa, sono purtroppo rimasti esclusi dai circuiti della DaD.

La sfida è dunque un’altra: “la prospettiva di educazione diffusa”, afferma Calemme, “significa che tutti collaborano con pari dignità. A livello di attori, ma anche di decisori”.  Ciò implica la strutturazione di strategie comuni tra scuola e terzo settore, di collaborazioni, finalizzate alla co-progettazione di percorsi  educativi, che hanno già mostrato ottimi frutti nei casi in cui siano state realizzate, ma che da “buone pratiche” dovrebbero diventare pratiche abituali.

Un simile percorso richiede capacità di lettura dei bisogni, di comprensione e di costruzione comune di visione strategica, il che comporta fatica, ed esige volontà e competenza. D’altronde è difficile immaginare una modalità di approccio che non richieda sforzo, e che possa comunque produrre risultati profondi e duraturi. Ce lo insegnano gli esempi virtuosi sparsi in diversi luoghi d’Italia, che hanno tutti funzionato grazie alla costruzione di forme integrate di intervento, innescate all’interno di un approccio sistemico implicante l’attivazione, pensata ed organizzata insieme alla scuola, degli altri attori, pubblici e privati, del territorio, che hanno condiviso con regolarità le esperienze fatte e quelle in essere, le problematiche incontrate e le soluzioni cercate o da sperimentare. Una comunità educante è circolare, promuove lo scambio, agisce obbligandosi ad una continua riflessione sull’agire, per permetterne il divenire e correggerne la rotta.

Le potenzialità insite nelle parole “patto educativo di comunità” sono davvero notevoli: il termine “patto” contiene in sé al contempo il concetto della promessa reciproca e del vincolo che la ratifica – senza il vincolo esso diventerebbe una dichiarazione di intenti, senza la promessa ne mancherebbe lo scopo, la visione condivisa alla base; il termine “educativo” contiene la cultura, la formazione, l’istruzione, l’educazione con i suoi risvolti sociali e molto altro. La “Comunità” poi, per definizione, è multiattoriale ed è essa stessa un contenitore di soggetti singoli e realtà aggregative.

Allora, se il Piano Scuola si riferisce davvero ad un vincolo di collaborazione  tra la Scuola, presidio insostituibile, e gli altri attori della comunità per la costruzione di percorsi “educanti” complementari e condivisi, bisognerà che si mantengano le promesse racchiuse nella definizione stessa di questo formidabile strumento. Così che il Patto Educativo di Comunità non resti solo un nome, ma diventi un vero e proprio programma.