Nell’ambito religioso, le storie come quella di frate Marco vanno sotto l’etichetta di vocazioni adulte, cioè scelte di fede intraprese da chi ha già alle spalle un bel pezzo di vita. Un’ipotesi eccezionale, fino a qualche decennio fa, ma ormai un’eventualità molto comune. “Quando ho deciso di farmi frate”, racconta, “avevo già un’attività professionale avviata, mi ero aperto uno studio, e contemporaneamente mi dilettavo a scrivere musica”. Diviso tra il lavoro da ingegnere e la passione per la musica, alla fine, Marco ha optato per la terza via, quella della vita religiosa. E in particolare ha scelto l’ordine dei Frati Minori francescani. “La figura di San Francesco mi ha affascinato per la sua vicinanza ai poveri”, spiega, “e anche per lo stile di vita povero, per l’abbandono di un’esistenza dominata dall’economia e dai soldi”.

Abitare l’ultimo posto

La vocazione ha impresso alla storia personale di frate Marco una traiettoria imprevedibile, che lo ha condotto fino a Torre Angela, in una casetta indipendente a due piani situata nella zona cosiddetta “degli Arcacci”, marchiata dagli inconfondibili tratti della borgata romana. Un alloggio che divide con due confratelli e con ospiti saltuari, bisognosi di un appoggio che gli consenta di superare le difficoltà e riprogrammare le loro esistenze. Tecnicamente, questo esperimento francescano di immersione nella società si chiama “comunità inserita” e ha poche repliche in Italia. “Abbiamo scelto questo luogo perché è una delle aree con maggiore povertà; la motivazione che ci spinge arriva direttamente dal Vangelo: noi vogliamo abitare l’ultimo posto, insieme alle persone che non lo hanno scelto, per dire loro che il Signore è vicino e le invita a venire avanti”. Questa opzione privilegiata per i poveri, però, chiede ai frati di interrogarsi continuamente su loro stessi e sulle scelte fatte. “Ci domandiamo sempre se questo è ancora il nostro posto, perché dobbiamo cercare sempre nuove modalità di inserimento nella società”. Per alimentare questa continua messa in discussione, Marco e i suoi confratelli attingono alle relazioni con altre realtà, che consentono di saldare alla loro visione vera e concreta uno sguardo più globale e analitico. È così, ad esempio, che è nata la conoscenza con la Fondazione Bulgari. “Per noi è fondamentale confrontarci con loro” spiega Marco, “perché hanno uno sguardo di insieme, di sistema, fatto di dati e statistiche; noi invece siamo qui, siamo immersi e non vediamo il tutto; entrambe queste visioni sono importanti e devono essere complementari.

Una rete contro povertà, abbandono e solitudine

Nei ragionamenti di frate Marco, questa importanza di fare rete torna costantemente, perché rappresenta il vero modus operandi della piccola comunità francescana, che in questi anni ha cercato di tessere una molteplicità di relazioni sul territorio. Il punto di partenza, luogo privilegiato di azione, è la Parrocchia dei Santi Giuda e Taddeo. “Diamo una mano con la messa domenica, celebrando l’eucarestia qui agli Arcacci, e poi collaboriamo con il centro di ascolto, dove le persone vengono per raccontare le difficoltà che hanno e noi, insieme agli altri volontari, cerchiamo di trovare delle soluzioni”. Richieste di aiuto che nella maggior parte dei casi hanno a che fare con la mancanza di risorse economiche, con la ricerca del lavoro, con fragilità psicologiche oppure con la difficoltà nel rapportarsi con la burocrazia e l’amministrazione pubblica per veder riconosciuti i propri diritti. Altro legame molto solido è quella con Tilde e con l’Associazione Eutopia. È un’esperienza molto bella perché Tilde, insieme a una rete di mamme e volontari, cerca di arginare il fenomeno della dispersione scolastica, che a Tor Bella Monaca è molto presente; sia io che frate Alessandro diamo una mano con le ripetizioni dei ragazzi delle scuole medie e delle superiori”. C’è poi un lungo elenco di persone e famiglie con cui i frati francescani di Torre Angela hanno un rapporto diretto: donne che faticano a crescere i figli da sole, famiglie con disabili a carico che si sentono abbandonate, uomini e donne in condizioni di povertà estrema che vivono in alloggi di fortuna (come le baracche di via Laerte). Vite diverse e variegate, ma accomunate da un profondo senso di solitudine, che i frati cercano di riempire con la costanza di una presenza attiva.